La diagnosi di Aids, per tutta la seconda metà degli anni ’80 fino al 1996, anno in cui si afferma l’efficacia delle prime terapie antiretrovirali, significava comunicazione di una morte imminente. Furono in molti che, tra medici, operatori sociali, familiari e volontari, si diedero da fare insieme alle persone malate, affinchè i pochi mesi o i pochi anni che rimanevano da vivere fossero di buona qualità, cercando di evitare che i circuiti di emarginazione e di esclusione si impadronissero totalmente di un’aspettativa di vita ridotta al lumicino. Ciò che arrecava dolore non erano solo la malattia e la sua prognosi infausta, ma lo stigma sociale che si mangiava ogni identità della persona: si era solo più tossicodipendenti con l’A.I.D.S, omosessuali HIV+ e nient’altro. L’etichetta spregiativa forniva un volto alla paura del contagio, creando rifiuto ed esclusione, e diffondeva un’interpretazione riduttiva del fenomeno col risultato di fuorviare la piena comprensione delle vie della contaminazione dell’infezione, che, come gli studi epidemiologici presto misero in evidenza, avvenivano principalmente attraverso i rapporti sessuali non protetti.
Le organizzazioni dei malati, dei familiari, degli operatori sociali del pubblico e del privato-sociale, degli stessi medici infettivologi, si posero allora due obiettivi principali: la prevenzione della malattia come priorità in assenza di cure efficaci, e la difesa dei diritti dei malati, perché non morissero, prima di morire, di morte sociale. Ognuno che si mise in gioco si diede da fare nel proprio ambito: La L.I.L.A (Lega Italiana di Lotta all’Aids), l’Anlaids (Associazione nazionale di lotta all’aids, di cui il prof. Aiuti fu promotore) e tanti, tanti altri gruppi sparsi per l’Italia. Molte organizzazioni che si occupavano della riabilitazione dalla tossicodipendenza convertirono alcune comunità terapeutiche in case di accoglienza per le molte persone che, sorprese dalla malattia, non disponevano né di casa né di famiglia. Il prof. Fernando Aiuti, oltre che essere medico-infettivologo e ricercatore, faceva parte a pieno titolo di questo fronte. Non solo per il bacio sulle labbra, emblematico come comunicazione a non aver paura delle persone con l’HIV, dato alla sua paziente, Rosaria Iardino. Essere stati insieme in quegli anni, in un impegno che appariva disperato, al di là delle possibili divergenze che spesso hanno caratterizzato il dibattito tra le stesse organizzazioni per il loro specifico posizionamento su questioni socialmente spinose, fu la cosa più importante.
(don luigi ciotti e leopoldo grosso)