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NotizieL'esodo degli scartati

I migranti che provano a entrare nel nostro continente attraverso quella che ormai tutti conosciamo come "rotta balcanica" finiscono in un percorso a ostacoli, che non a caso le schiere di disperati chiamano "The game". Stretti a tenaglia tra chi li lascia passare e chi non li vuole accogliere. Un rimpallo di responsabilità e oneri su cui gioca la propaganda politica di molti Paesi europei . Un "gioco" che strema corpi e motivazioni di chi è in viaggio. Viaggio che, con gli Scalabriniani, ha fatto e qui ci racconta Martina Cociglio

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Al confine orientale d’Europa si sta consumando, da mesi, una tragedia. I migranti che provano a entrare nel nostro continente attraverso quella che ormai tutti conosciamo come “rotta balcanica” (e che La Via Libera ha già raccontato qualche mese fa) finiscono in un percorso a ostacoli, che non a caso le schiere di disperati chiamano “The game”. Stretti a tenaglia tra chi li lascia passare e chi non li vuole accogliere. Un rimpallo di responsabilità e oneri su cui gioca la propaganda politica di molti Paesi europei . Un “gioco” che strema corpi e motivazioni di chi è in viaggio. Viaggio che, con gli Scalabriniani, ha fatto e qui ci racconta Martina Cociglio.

Qualche tempo fa ho fatto un’esperienza di viaggio al fianco dei migranti lungo la rotta balcanica. Un giorno mi sono trovata a percorrere il sentiero nei boschi che è per loro – non per me con il mio passaporto rosso e potente – il più pericoloso. La polizia li aspetta sulle montagne tra la Bosnia Erzegovina e la Croazia ed è pronta a respingerli con violenza nel nome della difesa dei sacri confini dell’Unione Europea. Non avevo gli strumenti per aiutarli a passare ma potevo chinarmi e raccogliere gli oggetti e i resti del loro passaggio: museo dell’oggi a cielo aperto. Biglietti dei bus, pannolini, scatolette di tonno, scarpe: piegandomi per raccogliere mi inchino al loro passaggio e chiedo scusa per la responsabilità che ho come cittadina dell’Unione Europea. Il mio sogno di giustizia aveva le mani nella terra sporca ma mai come in quel momento ha puntato il cielo.
Raccolgo tra le foglie una scarpa, o quello che ne rimane. Immagino il piede a cui questa apparteneva prima di distruggersi in mezzo al game, l’attraversamento delle frontiere tra i boschi per tutti coloro che non possono esibire un passaporto e un visto ai regolari valichi di frontiera. Un piede scalzo e ferito che bussa alle porte d’Europa. Un piede che partito dall’Afghanistan, dalla Siria, dall’Iran, dall’Iraq, dal Pakistan non può e non vuole rinunciare proprio ora al cammino che l’ha visto partire ormai anni fa.

Il game, una grande partita in cui i migranti sono il pallone che gli Stati si passano l’un l’altro come merce di scambio e materia di contratto. Una volta che si è partiti non si può più tornare indietro: la Turchia non è un Paese in cui poter pensare di costruire un futuro se si è stranieri, così non resta altra scelta che mirare all’Europa. Solo uno stretto braccio di mare separa la costa turca dalle isole greche, celebre meta di vacanze estive: Samos, Chios, Lesvos, Leros, Cos. Sono pochi chilometri da percorrere su di un gommone nero di plastica, nella notte, seguendo le stelle. Se si arriva salvi sull’isola si è in Europa, già, ma in trappola. Non si può proseguire oltre, la terraferma greca è lontana e si rimane bloccati in campi profughi che non possono contenere migliaia di persone e si trasformano in baraccopoli di fortuna. Solo dopo molti mesi di attesa si riesce in qualche modo ad essere trasportati sulla terraferma, ma anche se è Europa, la Grecia non è meta del viaggio. Non ci si può fermare lì, bisogna procedere verso nord: Macedonia, Serbia, poi a ovest in Bosnia ed Erzegovina. L’Europa è davvero a un passo ma per chi non ha documenti superare la Croazia, cane da guardia della frontiera dell’Unione, non è per niente facile.
Le autorità croate fanno di tutto per rendere impermeabile il confine agli stranieri indesiderati. I respingimenti, anche quelli effettuati al confine italo-sloveno, sono documentati e fotografati nelle ferite aperte e nelle cicatrici delle persone migranti che arrivano a Trieste, violate nel fisico e nella mente. Chi li incontra, però, come i volontari di Linea d’Ombra a Trieste, riconosce in loro una dignità e una speranza così profonda da rimanere ogni volta arricchiti da chi in quel viaggio tutto ha perduto e in tutto è stato tradito. Quegli occhi portano i segni di traumi che necessiterebbero di un lungo lavoro di cura ma parlano anche di vita che continua nonostante.

Nel maggio 2021, un anno e mezzo dopo il viaggio che ha portato nove giovani dell’Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo a realizzare un percorso partito dal confine turco siriano, a Gaziantep, e terminato a Trieste, le parole sono diventate un libro. Il viaggio ci ha cambiati, e così doveva essere. Quando tocchi davvero qualcosa inizi a farne parte, altrimenti l’incontro è vano. Il viaggio si è trasformato in parole di testimonianza che abbiamo raccontato in diverse città, in storie consegnate perché altri potessero sentirne la speranza e il dolore. Informare non per suscitare pietismo ma per coltivare empatia e consapevolezza. Il libro si chiama Umanità IninterRotta, diario di viaggio sulla rotta balcanica (edizioni Seipersei) e contiene le fotografie e gli appunti di un cammino che non aveva null’altro scopo di essere a fianco dei migranti e di chi, come attivista, operatore, volontario, quotidianamente si trova coinvolto, o meglio sceglie di farsi coinvolgere, nell’esodo dei respinti e degli scartati.

Il libro rappresenta il rifiuto alla normalizzazione della violenza nei confronti dei migranti e delle violazioni dei diritti legati all’asilo e alla tutela dei diritti fondamentali. È un libro che non ha la pretesa di analizzare in maniera sistematica la complessità della rotta ma che certamente abita le case dei siriani che ci hanno accolto a Gaziantep, delle famiglie irachene che ci hanno abbracciato a Kirsehir, dei giovani incontrati nel quartiere multiculturale di Izmir, dei bimbi di Samos e delle donne del campo di Salonicco, delle persone incontrate nei campi e nelle “jungle” a Bihac e Velika Kaldusa. Ascoltarle e custodirle è un po’ come tendersi la mano.

(martina cociglio)

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