NotizieSi muore di lavoro, ma anche senza

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Piero Alberganti aveva trent’anni, una giovane moglie innamorata, un figlio nato da poco e tanti amiciche gli volevano un gran bene. Il lavoro erala sua passione, un lavoro a più dimensioni: manuale e sociale insieme. PerchéPiero era un tipo pratico, gli piaceva adoperare le mani, costruire,aggiustare, abbellire gli spazi dove altri avrebbero lavorato. Ma era anche unidealista nel senso migliore del termine: sognava una società più giusta e piùumana, da costruire attraverso un impegno altrettanto tenace. Era arrivatoal Gruppo Abele nei primianni Settanta con il servizio civile e poi aveva scelto di restare, perchédentro l’associazione aveva trovato la possibilità di conciliare le sueaspirazioni, lavorando di mano, di testa e di cuore. Sul lavoro però Piero èmorto, e la sua morte ha spezzato qualcosa dentro noi tutti. È rimastofolgorato da un cavo elettrico posato da altri abusivamente dove non avrebbedovuto stare. Molte morti sul lavoro avvengonocosì: per superficialità e negligenza. E non sempre servepuntare il dito, accusare qualcuno, perché i responsabili di quelle morti nonsono assassini che intenzionalmente uccidono, ma vittime loro stessi ditrascuratezza e disattenzione.

Il lavoro da fine a mezzo. Di chi è allora la colpa? Perché la sicurezza continua a mancare in tanti contesti lavorativi? I comportamenti pericolosi e imprudenti sono figli di una degradazione del concetto di lavoro nella mentalità pubblica, di quel ridurre la persona umana da fine a mezzo che tende a cancellare i diritti e azzerare le opportunità di un impiego vero, pulito, tutelato. Non basta fare più controlli, imporre maggiori strumenti di prevenzione, se non agiamo anche a livello culturale!

Oggi si muore di lavoro perché si lavora a ritmo sempre più serrato, attenti ai volumi della produzione più che alla qualità del prodotto. E questo non soltanto in ambito industriale, ma anche nei servizi e persino nel campo del lavoro altamente qualificato. Abbiamo professioni, come quelle sanitarie, dove i lavoratori sono sottoposti a livelli altissimi di stress e turni estenuanti, a dispetto dei grandi proclami a loro favore durante la pandemia. Abbiamo settori, come l’agricoltura o l’edilizia, dove assistiamo al ritorno a vere e proprie forme di schiavismo, malgrado le buone norme contro il caporalato approvate negli ultimi anni. Abbiamo nuovi servizi, ad esempio nella logistica, dove il lavoro a chiamata assume facilmente i contorni di uno sfruttamento legalizzato. Abbiamo segmenti, come quello della ristorazione, dove si fanno volumi di nero impressionanti.

Tutto questo perché? Per avidità. Si taglia sui diritti per ampliare i profitti. Si pagano poche persone per fare il lavoro che dovrebbero fare in tanti, semplicemente per avere meno costi e guadagnare di più. E questo vale nel piccolo come nel grande, anche se la piccola imprenditoria a volte sconta i problemi di una fiscalità non sempre equa, criticità che però non si possono scaricare sui lavoratori.

Senza prospettive. Ecco allora che si continua a morire di lavoro, ma anche di assenza di lavoro e in particolare di un lavoro dignitoso. Perché lavorare non è solo lo strumento per guadagnarsi da vivere, è la principale forma di realizzazione di una persona nelle sue capacità e inclinazioni. Nel lavoro, oltre che negli affetti, si costruisce la propria identità personale e sociale. Nel lavoro si stringono rapporti, si impara, ci si mette alla prova. Nel lavoro si cerca libertà e dignità, si pongono le basi per un’esistenza autonoma, una famiglia e tanti altri progetti. Per questo molte persone senza lavoro muoiono dentro, si sentono inutili, perdono la prospettiva di futuro… Alcune arrivano a togliersi davvero la vita. Come hanno fatto anche certi imprenditori disperati quando hanno visto mancare le condizioni per continuare a garantire un impiego ai propri dipendenti.

Mai come in questo periodo sentiamo invocare un nuovociclo di sviluppo economico, ma solo seancorato ai diritti lo sviluppo diventa progresso sociale e civile.Sentiamo tanto parlare di crescita, ma l’economia cresce solo se crescono ladignità, la cultura e l’umanità. Altrimenti a crescere è una ricchezza sterile,sono le disuguaglianze, le ingiustizie,le sacche di povertà e disperazione. E saremo destinati ad affrontare semprenuove crisi che saranno economiche nelle conseguenze, ma etiche e sociali nellepremesse.

Una giusta remunerazione. Nel nome del capitale economico, non possiamo distruggere la dignità umana e l’integrità ambientale! Non possiamo continuare a difendere un sistema dove le cose contano più delle creature viventi. L’economia va ricondotta dentro una logica di giustizia, a partire proprio dalla promozione e tutela del lavoro in ogni sua forma: dev’essere chiaro che l’obiettivo primario non è il reddito per tutti – che pure è una fondamentale rete di protezione contro la miseria – ma un lavoro dignitoso e giustamente remunerato per ciascuno. In questo senso serve anche una chiamata alla corresponsabilità da parte di chi lavora, dalle persone con maggiore esperienza fino ai giovani che per la prima volta si affacciano nel mondo delle professioni.

Questa corresponsabilità io l’ho assorbita dall’esempio di tanta gente che ho incontrato nella vita, persone capaci di lavorare bene e lavorare per il bene nello stesso tempo. Come mio padre, capomastro, attento soprattutto al benessere di chi lavorava con lui. O come il mio amico Piero, ingegnoso “tuttofare” che ancora tanto avrebbe potuto costruire di bello e di buono. E che spero di avere onorato dedicandogli ogni giorno un pezzettino del mio impegno.

(luigi ciotti, presidente del gruppo abele. Questo articolo è il suo editoriale al numero 15 della rivista Lavialibera, integralmente dedicata al mondo del lavoro)

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