NotizieDifendere i diritti per garantire l'uguaglianza

L'intervento integrale di Leopoldo Grosso, presidente onorario del Gruppo Abele, al 27° Congresso nazionale della Fiom Cgil tenutosi a Riccione dal 12 al 15 dicembre

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I diritti, nella storia della comunità umana, nascono per proteggere i più deboli dai soprusi dei più forti. I diritti sociali vengono definiti diritti di “terza generazione”. Prima furono i diritti civili (l’habeas corpus, l’uguaglianza di fronte alla legge, i diritti di libertà…) . Poi vennero i diritti politici (ed è sempre utile ricordare che è solo da 70 anni che le donne votano in Italia). Infine i diritti sociali, che sono ancora in mezzo al guado. Per questo sono anche chiamati diritti di carta, perché, pur sanciti ufficialmente (la nostra Repubblica “è fondata sul lavoro”, recita la Costituzione italiana), non sono garantiti nella realtà. Sono diritti difettosi in quanto non sono esigibili. Non contemplano un’autorità terza, un giudice a cui rivolgersi, per farli valere. I diritti umani, che sanciscono i livelli essenziali a favore della sopravvivenza e della dignità delle persone, poggiano tutti sull’effettività dei diritti sociali ed economici (“Non ci sono i soldi” è invece il ritornello autogiustificatorio che accompagna la negazione della prestazione a cui si ha diritto).

I migranti costituiscono una popolazione di senza diritti: senza diritti nel paese da cui emigrano; senza diritti nei paesi in cui approdano; senza diritti nel lungo viaggio della speranza. La speranza che accompagna ogni progetto migratorio è di trovare un lavoro, di trovare qualcuno che compri la tua capacità e la tua voglia di lavorare. È il motore che sospinge e alimenta l’emigrazione, che oggi registra 135 milioni di persone in fuga dai danni dei cambiamenti climatici nei loro territori. Ne hanno saputo qualcosa i 30 milioni di Italiani che dal 1861 al 1961, in un secolo di storia, sono emigrati dall’Italia alla volta del Nord Europa, delle Americhe, dell’Australia. Nel 1861 la popolazione italiana era di 22 milioni di persone; nel 1961 di 50 milioni; oggi siamo 60 milioni 500 mila. In un secolo di storia un’altra Italia vive in altre parti del mondo, mescolandosi con i popoli dei diversi paesi in cui è approdata. Ne hanno saputo qualcosa gli stessi emigrati dal nord al sud dell’Italia negli anni ’50 e ’60 del Novecento che hanno faticato per la loro accettazione e integrazione. Ne sanno qualcosa i migranti stranieri oggi da noi, in Italia: 5 milioni di stranieri residenti, l’8,3% dell’intera popolazione. Di cui la metà dall’Est Europa, della cui metà rumeni.

Si sono inseriti in un’Italia la cui famiglia, nel frattempo, è diventata, come lo Stivale, lunga e stretta: stretta perché con un bambino per coppia (1,3 statisticamente) non riproduce se stessa; lunga perché fortunatamente si vive di più, con un’esistenza media che, anche per gli uomini, si protrae fino a 80 anni. Infatti un milione di donne straniere hanno trovato lavoro come badanti, in appoggio alle famiglie con anziani non autosufficienti e in soccorso alle carenze del nostro welfare. Aiutano le famiglie italiane ed aiutano le loro nei loro paesi di origine, contribuendo significativamente ai pil dell’Ucraina, Romania e Moldavia, sulla scia dei migranti marocchini in Europa, le cui rimesse nel loro paese costituiscono la seconda fonte di reddito nazionale, dopo l’industria dei fosfati.

Il lavoro riscatta. Fornisce il reddito per il sostentamento; conferisce dignità sociale; crea identità; ai più fortunati reca anche soddisfazione di per sé. Senza lavoro difficilmente si ottiene una residenza e, senza residenza, anche un cittadino italiano non ha più la tessera sanitaria, né l’aiuto dei servizi sociali. Chi perde il lavoro, spesso, con ritmi ormai molto veloci, perde anche la casa pur per “morosità incolpevole”. Senza più la casa, per la famiglia è un “si salvi chi può” che comporta divisione e diaspora per i suoi componenti. Senza lavoro non si è nessuno. Si diventa invisibile, oppure mal visto. Essere invisibili significa non contare per nessuno e, alla fine, pensare di non avere alcun valore, di non meritarsi niente. Se si è mal visti, si è presto etichettati come diversi. L’essere visti come diversi appiccica alle persone un’altra identità, sottraendo la propria. L’etichetta, accompagnata dalla riprovazione e dallo stigma, è un vero e proprio furto di identità. Il peso di un’etichetta sgradita, nella dinamica sociale, è ben descritto in sociologia, facendo l’esempio del cieco di quartiere. Tutti si rapportano a lui unicamente in quanto cieco: in strada c’è l’iperprudente che si sposta di tre metri per timore di essergli di intralcio, chi eccede nel fare il boy-scout e lo vuole aiutare a ogni costo, privandolo dei suoi schemi di riferimento, il curioso che l’osserva oltre il dovuto per capire come se la cava. Tutti, comunque e inequivocabilmente, si rapportano a lui solo come cieco. La sua cecità si mangia la sua persona e la sua identità personale. Non ha un nome e un cognome: è il cieco del quartiere. Solo volendo conoscere le persone, si scopre, per esempio, che chi non dispone della vista può riuscire a essere molto affascinante con l’uso delle parole. Solo allora non è solo più un cieco, ma una persona con altre caratteristiche che definiscono l'identità. Se si vogliono conoscere i migranti bisogna andare loro incontro ed ecco che, con la conoscenza cadono anche i pregiudizi.

I pregiudizi sono parenti stretti dell’etichetta e degli stereotipi. Il pregiudizio non è solo un concetto errato. È qualcosa di più. Il pregiudizio è sordo, non vuole sentire. Resiste a qualsiasi smentita, anche evidente. Non conosce il principio scientifico di falsificazione. La Terra continua a rimanere piatta, non diventa mai rotonda. Il dramma è che, nel gran mercato delle opinioni, rischia di essere un’opinione come un’altra, in cui una vale l’altra. I pregiudizi non nascono nel vuoto, non si sviluppano nel nulla. Si nutrono di processi e di dinamiche sociali che li legittimano. Le cattive informazioni (a volte consapevolmente false) creano senso comune. Il senso comune non coincide con il buon senso, e il senso comune può costituire la base per quel tipo di leggi che si costruiscono in accordo con i sondaggi di opinione, assecondando e creando consenso, anche elettorale.

La legge sull’asilo dei rifugiati è stata una legge con una grossa pecca: stare due anni in attesa del responso e del possibile permesso di soggiorno, non consentendo per quel tempo (a volte più di 2 anni), alle persone di lavorare, produce avvilimento e assistenza. Oggi i decreti sicurezza appena varati, a proposito di migrazione, otterranno l’effetto contrario: più insicurezza per tutti: i migranti e i cittadini italiani.


  • Si chiudono gli Sprar, i Centri di accoglienza in mano ai Comuni che, lavorando su numeri più piccoli ma diffusi su tutto il territorio nazionale, consentivano maggiori sforzi e successi per un’effettiva integrazione. Rimangono invece i Cas, lunga mano, attraverso le Prefetture, del Ministero dell’Interno, che concentrano maggiormente il numero delle persone accolte, le attivano in maniera insufficiente, e accentuano la dimensione del controllo.

  • Si cancella sostanzialmente la possibilità di concedere il permesso di soggiorno per motivi umanitari

  • Si prolunga la detenzione amministrativa, da 90 giorni a 6 mesi.

  • Si creano e si potenziano gli hotspot, i luoghi di detenzione alla frontiera (sulle sponde del Mediterraneo e in Italia)

  • Si utilizzano i soldi della cooperazione internazionale per comprare le motovedette alla guardia costiera libica


In combinato con i provvedimenti dell’ Unione Europea si legittimano i paesi di transito che vengono delegati a verificare in loco le richieste di asilo, con l’intento di creare tante Turchie, che trattengono i profughi. Non si negano del tutto i diritti, ma li si restringono di gran lunga soprattutto con l’adozione di nuove procedure di espletazione. E la procedura è, come ben sanno i giuristi, la sorella della giustizia. Il risultato non potrà che essere: più criminalizzazione, più clandestinità, più insicurezza. La domanda inquietante è: Quale sarà lo scenario successivo? Chi viene emarginato, è più solo, più disperato e meno responsabile. Al contrario chi viene accolto e beneficia di reti di sostegno e riconoscimento, matura più speranze ed è più responsabile dei propri comportamenti. Un sensato e ragionevole sistema di accoglienza significa più sicurezza La sicurezza deve poter seguire le strade dell’inclusione e dell’integrazione, di cui il lavoro è il cardine. Come Fiom ne siete alfieri e baluardo e per questo vi ringraziamo.

(intervento integrale di leopoldo grosso, presidente onorario del gruppo abele, al congresso nazionale della fiom-cgilsvoltosi a riccione dal 12 al 15 dicembre)

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