Patrizia ha 51 anni e la sua storia di operatrice al Gruppo Abele comincia quasi 29 anni fa. Era il 1990 ed era appena stata aperta la comunità per bimbi Hiv+ e malati di Aids, nel tempo tramutata in comunità per madri tossicodipendenti con i loro figli. Patrizia adesso coordina l'area vulnerabilità dell’associazione, è operatrice della Drophouse e lavora con donne provenienti di ogni nazionalità, soprattutto provenienti dall'area del Maghreb. Segue per il Gruppo anche il progetto Mamma+ e cura percorsi di psicomotricità per bimbi in difficoltà.
Si parla tanto delle differenze che intercorrono tra uomo e donna sul posto di lavoro: dalle difformità di trattamento alle sperequazioni economiche, dalla disuguaglianza nell'accesso ai diritti fino all'interdizione ai ruoli apicali. Da donna che lavora nel sociale, come percepisci questi fenomeni?
La presenza maschile nelle professioni sociali, così come nelle professioni sanitarie e nel mondo della scuola, è minoritaria, ma questo non significa necessariamente che in questi ambiti i ruoli di responsabilità siano proporzionalmente ricoperti da donne. Credo che ci si debba interrogare a questo riguardo, anche perché le politiche odierne non ci permettono di dare per assodati i risultati raggiunti dalle donne dal dopoguerra a oggi. Ovviamente come per tutte le donne lavoratrici, anche per noi operatrici del sociale, il momento in cui si vive la maternità può diventare uno spartiacque che obbliga a fare scelte importanti. Ci sono paesi europei in cui la maternità è pagata al 100% per il primo anno di vita del bambino, da noi oltre a non offrire garanzie economiche sufficienti, non vengono neanche garantiti servizi di base come gli asili nido, fondamentali per famiglie che non hanno nonni a cui appoggiarsi, o stipendi sufficienti a coprire le rette dei nidi privati.
Insomma, una discriminazione di fatto?
In molti Paesi europei si è puntato in modo serio sul congedo parentale per i padri, la coppia sceglie come gestire i figli e il lavoro di entrambi. Per favorire questo avvicendamento, che valorizza il ruolo di entrambe le figure genitoriali, sarebbe necessaria una modificazione complessiva del ruolo dell’uomo e della donna nel mondo del lavoro. Inoltre l’innalzamento dell’età pensionabile fa sì che anche i nonni siano difficilmente una possibile risorsa per la gestione dei nipoti.
Tu sei una donna che si rapporta, per lavoro, con molte altre donne. Credi che questo sia un valore per la tua professione? E ci sono dei rischi?
Sì, ritengo che nella mia esperienza personale sia un valore, perché nel mio specifico incontro molte donne in un periodo delicatissimo della vita: quello della gravidanza e, in generale, della maternità. Spesso si tratta di donne che arrivano da paesi lontani, sole, che non hanno accanto madri, zie, sorelle, amiche, ovvero tutta quella rete femminile che solitamente rappresenta il punto di riferimento a cui una donna si appoggia quando da figlia diventa madre. Il ruolo dell’operatrice può tentare di colmare almeno in parte questo vuoto, costruendo insieme alla neomamma una relazione che possa essere per lei contenitiva e rassicurante.
Tornando alla domanda, sì ci sono anche dei rischi. Il nostro lavoro si nutre di relazioni e le relazioni sono un materiale molto delicato da costruire, da maneggiare con cura, non solo per tutelare le persone che ci chiedono aiuto, ma anche per tutelare noi stesse. I vissuti personali delle operatrici, anche quelli dolorosi, sono un bagaglio che entra a far parte della sua cassetta degli attrezzi, e possono diventare strumenti molto utili, a patto che non si confondano con il vissuto delle donne che incontriamo nel nostro lavoro. Occorre fare molta attenzione. Immaginiamo per esempio quanto possa essere disarcionante emotivamente, per un’operatrice che ha difficoltà concezionali o che ha vissuto l’esperienza dell’aborto, stare a contatto con donne gestanti e neo-mamme. Per continuare ad essere una risorsa efficace, occorre lavorare su di sé, serve consapevolezza per riconoscere le fragilità personali e fare in modo che non ostacolino la relazione d’aiuto.
Guardandoti attorno, come vedi la situazione politica e sociale rispetto alla condizione femminile?
Nel 1946, le 21 donne elette nell’Assemblea Costituente lottarono, spinte dal sostegno e dall’azione politica dell’Unione Donne Italiane, perché fosse riconosciuta “la parità giuridica con gli uomini in ogni campo, il riconoscimento del diritto al lavoro e accesso a tutte le scuole, professioni, carriere; il diritto a un'adeguata protezione che permetta alla donna di adempiere ai suoi compiti di madre; uguale valutazione, trattamento e compenso degli uomini per uguale lavoro, rendimento, responsabilità”. Ci fu un conflitto acceso sul definire il diritto delle donne ad avere un ruolo in tutti gli ambiti professionali, in particolare il confronto fu molto teso in riferimento al ruolo di magistrato. Si deve a queste 21 donne l’aver impedito che la Costituzione potesse giustificare deroghe all’uguaglianza e che fosse espressamente, e neanche implicitamente, interdetto alle donne il mestiere di amministrare la giustizia. Nonostante ciò è stato necessario attendere il 1965 per vedere il primo concorso per la magistratura non espressamente dedicato ai soli uomini.
Oggi molte di quelle battaglie, che sono continuate per tutta la Prima Repubblica, sono a rischio. Penso al pensiero violento, maschilista e retrogrado che permea il Ddl Pillon. Questo provvedimento non è altro che il frutto acerbo di un pensiero rimasto latente per decenni, discriminatorio e pericoloso. Penso anche alla recente sentenza della Corte d’Appello di Bologna, che ha dimezzato la pena nei confronti di uomo che, in preda a quella che è stata definita “una soverchiante tempesta emotiva e passionale” adducendola ad attenuante, ha ucciso la sua compagna strangolandola a mani nude. Si legittima il ritorno al delitto passionale, insomma.
L’involuzione non è più dietro l’angolo. Ce l'abbiamo di fronte.
(piero ferrante)