«E voi, imparate che occorre vedere / e non guardare in aria; occorre agire / e non parlare. Questo mostro stava / una volta per governare il mondo! / I popoli lo spensero, ma ora / non cantiamo vittoria troppo presto: / il grembo da cui nacque è ancora fecondo» (Bertolt Brecht, Epilogo de La resistibile ascesa di Arturo Ui). Noi – Edizioni Gruppo Abele – parteciperemo al Salone del Libro di Torino esponendo sul nostro stand questa scritta e qualificando ulteriormente la nostra presenza sul tema del contrasto al fascismo vecchio e nuovo.
È una scelta sofferta e difficile quella di partecipare, nonostante tutto. Capiamo bene, e condividiamo, le ragioni di chi ha scelto di non esserci, dal Museo di Auschwitz all’Anpi ad autori anche nostri, come Tomaso Montanari. E troviamo ipocrite e totalmente fuori luogo le ragioni di chi invita alla partecipazione invocando principi di libertà della cultura e di confronto delle idee. Il Salone del Libro non è un supermercato in cui si affittano dei box e tutti quelli che pagano il canone possono partecipare, ma un grande evento che, come tutte le iniziative culturali, è chiamato a fare delle scelte. Mettere sullo stesso piano il Museo di Auschwitz e Casa Pound, gli ultimi sopravvissuti della barbarie e chi ne rappresenta e sostiene gli artefici non ha niente a che fare con la cultura e con la libertà: è, semplicemente, un’infamia. Certo, si possono fare – e in questi giorni molti stanno facendo – sottili distinzioni, coniugare diverse ipocrisie, finanche richiamare obblighi contrattuali (sic!). Ma la sostanza non cambia.
Saremo al Salone per dire tutto questo, con il contenuto dei nostri eventi, con una dichiarazione resa in apertura di ciascuno di essi, con un allestimento coerente dello stand. Non abbiamo la presunzione di ritenere che sia la scelta migliore. E tuttavia non vogliamo rinunciare a dire alcune cose, che valgono per l’oggi e per il futuro.
Anzitutto vogliamo dire che l’antifascismo è, oggi più che mai, un discrimine. Non per ragioni rituali che guardano al passato, ma per ragioni che hanno a che fare con il presente. Perché – come ha scritto Marco Revelli in occasione del XXV aprile ‒ "il fantasma dell’inumano è tornato ad aggirarsi per l’Europa, e sciaguratamente in Italia. Infesta le sale del Governo, occupa ministeri importanti, vitali, a cominciare da quello dell’Interno ridiventato 'di polizia', chiude porti, costruisce muri, pronuncia bestemmie pretendendo di tornare a separare 'uomini e n'” e a ri-proclamare nefasti primati ('prima gli italiani'), spietate messe al bando, reiterati apartheid". In questo contesto ospitare un editore come Altaforte, il cui proprietario dichiara apertamente il proprio fascismo e il cui catalogo si qualifica soprattutto per opere di propaganda illiberale quando non nazista, è a dir poco irresponsabile.
A nulla rileva che, in passato, altri editori di destra estrema siano passati per le sale del Lingotto. Qui e oggi il significato della presenza di Altaforte è dirompente e conferisce all’ideologia e al programma che la ispira una legittimazione ulteriore oltre a quella consapevolmente attribuitagli dal ministro dell’Interno con la pubblicazione della sua biografia e dei suoi progetti. Non comprenderlo – o fingere di non comprenderlo – è una responsabilità gravissima per gli organizzatori del Salone del Libro (e, dunque, per le associazioni degli editori, per il Comune di Torino e per la Regione Piemonte). Ed è avvilente sentir ripetere, anche in sede istituzionale, che non è possibile fare altrimenti in assenza di sentenze che abbiano accertato la violazione della legge Mancino da parte di Altaforte o di Casa Pound (magari accompagnando tali affermazioni con inutili esposti alla magistratura). Si tratta di un atteggiamento pilatesco che cancella la politica e le opzioni culturali dietro lo schermo della giustizia. Altaforte va escluso dal Salone perché il fascismo e la negazione dei valori fondamentali della convivenza civile sono fuori (oltre che della Costituzione) dell’orizzonte di un evento culturale degno di questo nome. Se e in quale misura le sue prassi, i suoi comportamenti e le sue pubblicazioni violino anche le norme penali è cosa che riguarda i tribunali. Non la cultura, la politica, il Salone del libro il cui metro di giudizio è diverso e autonomo.
Saremo al Lingotto anche per dire un’altra cosa, più contingente ma non meno importante. La presenza al Salone dello stand di Altaforte è emersa pubblicamente solo negli ultimi giorni, grazie alla denuncia di Christian Raimo. La prossimità dell’evento ha determinato reazioni in ordine sparso. Anche tra autori ed editori culturalmente omogenei. Alcuni hanno scelto di non stare, comunque, in un luogo che ospita fascisti e nazisti mentre altri hanno scelto di restare nel Salone per denunciare e contrastare quell’ideologia e quell’ospitalità. Questa diversità non è – non deve essere – un segnale di divisione ma di forza. La condizione è che le diverse posizioni evitino di misurarsi tra di loro e convergano nell’identificare e contrastare l’avversario comune: il riemergere del fascismo e l’ipocrisia di chi gli dà spazio e visibilità. Magari organizzandosi per dare da oggi in poi a questa azione di contratto coordinamento e continuità.
(livio pepino, direttore editoriale Edizioni Gruppo Abele)