Nelle dichiarazioni rilasciate l’11 giugno dal sindaco di Bologna, Virginio Merola, al Resto del Carlino, si parla di “una iniziativa del ministro Salvini”. Fatto sta che la chiusura dell’hub di via Mattei di Bologna, centro per richiedenti asilo della città felsinea, rischia di sconvolgere le vite di centinaia di persone, tra ospiti e lavoratori. I primi, costretti a scegliere (eccetto rari e specifici casi di estrema vulnerabilità per cui sono stati approntati percorsi a parte) fra il trasferimento a Caltanissetta e il salto nel vuoto; i secondi, che a fine giugno rimarranno senza lavoro.
Ufficialmente, la misura è temporanea: lavori di manutenzione straordinaria. Nei fatti, però, a leggere dichiarazioni, interviste e ipotesi, se ne deduce che di certo, a oggi, c’è solo l’incertezza.
L’emergenza è da codice rosso. Martedì 11, i lavoratori dell’hub sono scesi in strada chiedendo risposte che non sono arrivate. Non le ha l’amministrazione comunale. Non le ha il ministero dell’Interno. Non le ha la prefettura.
Un esempio, un caso tra tanti, che ha rimesso al centro del dibattito pubblico la precarietà dei lavoratori del privato sociale. Una questione calda, che a Bologna si salda con le lotte di altri lavoratori precari, primi tra tutti i riders. È in questo contesto cheche acquisisce ancora più senso Who cares, indagine collettiva lanciata da un gruppo di ricercatori in collaborazione con il circolo Arci RitmoLento ai primi di giugno e che, articolata in forma di questionario, ha come obiettivo primario quello di “fornire una base conoscitiva relativamente al settore del lavoro sociale su: origine sociale dei lavoratori e delle lavoratrici, condizioni contrattuali, condizioni di lavoro e condizioni relative al disagio psicofisico dei lavoratori e delle lavoratrici”.
E che, come ci spiega Valerio Tuccella, di RitmoLento, "vuole tracciare una narrazione nuova rispetto al lavoro sociale". Un lavoro "spesso dequalificato" ma che, pure, ha ricadute dirette non "soltanto sul lavoratore che lo svolge, ma sull'intera comunità". Il che acquista ancora più rilevanza in un tempo in cui "fette consistenti di popolazione non accedono più, per motivi diversi che vanno dalla poca conoscenza fino alle tempistiche d'attesa, ai servizi sociali o sanitari del pubblico". La ricerca pone dunque una questione "tutta politica", che attiene direttamente alla strutturazione delle nostre città. O, come hanno spiegato con un post facebook del 1° giugno i promotori, “la discussione sulla centralità dell’accoglienza, del welfare e in generale del lavoro di qualità e dei diritti di cittadinanza ad esso connessi non può essere ridotta a una questione corporativa ma ha bisogno di chiamare in causa la responsabilità del settore pubblico”.
Il questionario vuole mettere a sistema i vissuti di migliaia di lavoratori, generando autoconsapevolezza in merito ai diritti e provando a collettivizzare le conseguenze degli operatori del terzo settore, dallo stress al burnout, dalle storture contrattuali fino agli orari improbabili. Si rivolge a lavoratori e lavoratrici impegnati e impegnate nei servizi di interesse generale (dai servizi di cura, ai servizi assistenziali, da chi opera nell’educazione e nella formazione, fino alla sanità) che ogni giorno devono fare i conti con orari flessibili, emergenze e ripercussioni emotive. “Per ricomporre quello strappo tra utenti, lavoratori, cittadini che troppo spesso ci ha lasciati soli con le nostre ragioni. Tanto giuste e preziose quanto isolate”.
"Noi non vogliamo entrare in sedi contrattuali o salariali - la riflessione di Tuccella - Quello è compito dei sindacati e noi sono siamo un sindacato. Vogliamo però fornire un quadro generale delle condizioni lavorative di un intero settore perché si possa intervenire con misure specifiche".