Il termine hikikomori deriva da hiku, tirare indietro e komoru isolarsi, nascondersi, e indica uno stato d’animo e una condizione caratterizzati dall’isolamento dalla società come unica possibilità di sopravvivenza. Una fragilità che si manifesta nella necessità di autoreclusione nella propria stanza, unico luogo in cui ci si può sentire al sicuro. È stato coniato da Tamaki Saito, psichiatra giapponese, agli inizi degli anni Ottanta, il primo a studiare e codificare questo disagio in costante crescita tra i giovani, soprattutto nella fase dell’adolescenza.
In Giappone gli hikikomori sono più di un milione e mezzo e, solitamente, maschi di età compresa tra i 18 e i 27 anni. In Italia oltre 120mila, ma il numero cresce di anno in anno. Lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Lancini ha definito questa diffusa fragilità come “una forma estrema di protesta sociale, un grido di dolore, che nasce dal non sentirsi adeguati ai propri coetanei, incompresi a scuola, schiacciati dalla competizione”.
La competizione e la corsa alla migliore performance all’interno dell’istituzione scolastica, che sembrano prevalere sull’importanza delle relazioni con i coetanei e con gli adulti, sono da considerarsi tra le principali cause dell’autoreclusione degli adolescenti. I giovani hikikomori percepiscono il fuori come qualcosa d’ingestibile e decidono di chiudersi dentro dal momento che non vedono altra strada percorribile per sfuggire alle continue pressioni sociali, familiari e scolastiche.
“Il ritiro dalla società avviene in modo graduale – spiega ancora Lancini – un giorno il ragazzo non vuole entrare in classe perché ha mal di pancia, due giorni dopo si rifiuta di proseguire gli allenamenti di calcio, poi smette di rispondere ai messaggi degli amici su whatsapp, inizia a stare sveglio di notte e a dormire di giorno…” finché l’invisibilità diventa la sola alternativa a una vita sentita e ritenuta insopportabile.
Non esiste una ricerca su larga scala in Italia su questo fenomeno, ma pare evidente a chi lavora a stretto contatto con i giovani che l’aumento delle richieste di aiuto ha a che fare con forme di disagio caratterizzate dalla dipendenza da Internet. Bisogna però valutare con attenzione: la dipendenza da Internet è sì frequente nei casi di ritiro sociale, ma non ne è la condizione necessaria; più che causa della reclusione è dunque sua conseguenza. La Rete, anzi, può diventare a volte uno strumento per aiutare gli hikikomori a restare in relazione con il mondo, permettendo loro di provare emozioni e interessi e di condividerli con gli altri.
Al Gruppo Abele cerchiamo di studiare e prevenire le cause del fenomeno con interventi psico-educativi nelle scuole, ma l’obiettivo è di creare al più presto un servizio che concentri e coordini tutte le azioni necessarie per affiancare questi giovani nella lotta con le loro paure, accompagnandoli a una relazione più serena e costruttiva con il mondo di fuori, oltre il cielo chiuso delle loro stanze.