Proverò a fare un esempio: accostare la cooperazione internazionale al concetto di “aiutare qualcuno a casa propria” è come dire che un panettiere assembla acqua, farina, sale e Dio (qualunque dio!) solo sa cosa, invece che dire che cucina il pane, uno degli alimenti più buoni del mondo.
Fare cooperazione internazionale è un impegno con degli obiettivi, dei percorsi, dei progetti, delle mansioni, delle responsabilità e – ovviamente – degli orizzonti economici come qualunque altro impegno o lavoro. L’attività di cooperazione internazionale è una delle normali conseguenze di un mondo interconnesso da sempre ma – diciamolo – da qualche decennio decisamente un po’ di più, in cui una serie di realtà (a partire dai Governi degli Stati) hanno sentito il dovere di interessarsi delle condizioni di vita di altri Stati; e questo non (solo) sulla base di un impeto di bontà o compassione, ma di un concetto conquistato e condiviso - anche attraverso atti ufficiali - che si chiama “rispetto e difesa dei diritti umani”.
Sentiremmo intollerabile, dunque, un’eventuale leggerezza e supponenza nel guardare all’impegno di un “cooperante” (volontario o stipendiato che sia); ci suonerebbe infondata e fuori dalla conoscenza dei fatti l’idea che non possa essere un impegno con un fondamento e una ragione di esistere nella nostra società: un impegno che fa riferimento a una precisa scelta di vita, in questo simile a molti altri impegni e degno – per questo – di quella sana invidia che proviamo di fronte a chi ha le idee chiare.
E faremmo ancora più fatica se uno di questi cooperanti – tornato finalmente a casa dopo un sequestro, lungo 18 mesi - dovesse subire attacchi di ogni ordine e grado sui social, giudizi sommari, considerazioni fuori luogo da parte di chi fa un altro lavoro degno di invidia per la scelta personale che comporta, il giornalista.
Perché troveremmo normale appartenere a chiunque la speranza dettata dall’attesa (esposta magari, da parte nostra, su uno striscione che porta il nome della persona rapita) e la gioia per il suo ritorno.
Per fortuna, tutto questo non avviene.
L’antropologo Clifford Geertz scrisse: “Vedere noi stessi come ci vedono gli altri può essere rivelatore. Vedere che gli altri condividono con noi la medesima natura è il minimo della decenza. Ma è nella conquista assai più difficile di vedere noi stessi tra gli altri, come un esempio locale delle forme che la vita umana ha assunto localmente, un caso tra i casi, un mondo tra i mondi, che deriva quella apertura mentale senza la quale l’oggettività è autoincensamento e la tolleranza mistificazione.”. Ce l’abbiamo senz’altro fatta.
(chiara frencia, cda e referente cooperazioe internazionale del gruppo abele)
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Postilla: Dal 20 novembre 2018, dal giorno del rapimento di Silvia Romano, sulla sede del Gruppo Abele a Torino, abbiamo esposto un drappo bianco. Uno striscione piccolo, che con il tempo ha sopportato la pioggia, le raffiche di vento, anche una bufera notturna che ha squassato diverse veneziane della nostra sede. Ma lo striscione, invece no. Lui è stato sempre là, con i suoi pochi colori e una frase appena: “Silvia Romano, sorriso di speranza. Ti aspettiamo”. Ogni mattina, qualcuna di noi, qualcuno di noi, si prendeva la cura di srotolarlo qualora la notte lo avesse scompigliato. Perché quell'appello fosse un ricordo per tutti.
Un pezzo di memoria a disposizione di tutti. Lunedì scorso, l’11 maggio, 538 giorni dopo, bardati e protetti, rimuovere quello striscione è stata una delle azioni più emozionanti e belle che potesse riservarci questo presente fatto di tante incertezze e altrettante paure. Bentornata #Silvia.
Da tutto il Gruppo Abele e da tutti noi che abitiamo la Fabbrica delle E.
Guarda il video della rimozione dello striscione per Silvia Romano al Gruppo Abele