In occasione delle recenti proteste di piazza contro le restrizioni imposte per arginare i contagi da Covid, e in particolare di fronte ad atti di vandalismo e danneggiamento, si è parlato di “rabbia delle periferie che esplode” e di “giovani che hanno voglia di fare casino”. A Torino in particolare è finito sotto accusa il quartiere Barriera di Milano, dove risiedono alcuni dei giovani accusati delle violenze.
Ma cosa significa essere giovani in certi quartieri, oggi? In che modo contesti già segnati dalla precarietà economica, e dalle fatiche dell’integrazione fra comunità di diversa origine, si rapportano all’emergenza sanitaria, con tutto il suo portato di incertezze, sofferenze e regole?
Abbiamo raccolto la testimonianza di chi quel contesto lo vive ogni giorno, in tutte le sue complessità e contraddizioni, soprattutto accanto a bambini e ragazzi. Le interviste si sono svolte alla vigilia del nuovo lockdown, quando ancora erano consentite alcune attività che al momento non sarebbero possibili.
Il lavoro di strada con gli adolescenti
Sono le 18 passate quando parlo con Nicola e Sadjia del nostro progetto di Educativa di Strada, e al parco Peccei immagino faccia già quasi buio. I bar stanno chiudendo, ma agli adolescenti che sento vociare in sottofondo importa poco. Il loro luogo di ritrovo è lì, all’aperto, a chiacchierare e tirare calci a un pallone. Come era prima del Covid. Come è stato sempre esclusi i due mesi di lockdown.
Gli educatori hanno scaricato dal furgone le racchette da badminton e il ping-pong: gli unici giochi che consentono di mantenere la giusta distanza fra i partecipanti. Quando qualcuno si avvicina viene fornito di mascherina e igienizzante per le mani prima di fare due passaggi o due parole. Il piccolo presidio del Gruppo Abele diventa una zona rossa di rispetto delle regole, mentre a pochi metri di distanza nulla ricorda la pandemia in corso.
I ragazzi, mi racconta Sadjia, corrono dietro al pallone ammassati, gridandosi addosso, senza protezioni. Non per mancanza di informazione, mi assicurano: le regole in teoria le conoscono, sono gli educatori stessi a ricordarle in ogni circostanza e a dare l’esempio. E non si tratta neppure di ribellione. Piuttosto di semplice incoscienza giovanile, di indifferenza a un pericolo che questi adolescenti non sentono rivolto verso di sé.
Le famiglie di origine straniera costituiscono un tessuto sociale giovane, mediamente assai più giovane di quello italiano; fino a oggi la pandemia le ha toccate poco da vicino. I dati sui contagi e sui morti sono per loro qualcosa di astratto. Forse anche per questo i loro figli faticano a sentirsi chiamati in causa nello sforzo di prevenzione.
Alla domanda se non ci siano mai stati controlli, qui al parco, la risposta è che le forze dell’ordine si vedono arrivare solo in caso di risse o disordini. E se qualche influsso positivo, in termini di consapevolezza del problema, lo ha avuto a inizio estate un laboratorio di sensibilizzazione con una dottoressa della Asl, i suoi effetti pratici, a quanto pare, sono durati poco.
Più che i rischi del contagio, i ragazzi temono il restringersi del campo delle opportunità a cui assistono via via che le misure di contrasto alla pandemia si irrigidiscono. Opportunità culturali, economiche e di svago, per loro già prima piuttosto scarse.
La scuola è stata, ricordiamolo, la primissima attività a chiudere, a marzo scorso. E l’ultima a riaprire, in tutta Italia. Solo chi ha avuto genitori presenti e incoraggianti ha frequentato la DaD con impegno (e sono gli stessi, pochi, che oggi indossano la mascherina e provano a rispettare le distanze). Per gli altri si è trattato – e si tratta, poiché da qualche giorno gli istituti superiori sono di nuovo chiusi – di una specie di inattesa vacanza. Un regalo di tempo libero, che però a conti fatti di libero ha ben poco. Un tempo libero da, ma non libero di.
Nei rapporti anche conflittuali che instaurano a scuola, mi spiega Nicola, molti ragazzi riescono a costruire un proprio percorso di crescita, che il venir meno della didattica in presenza rende ancora più impervio. Nel periodo di lockdown gli operatori del Gruppo Abele hanno ripiegato sugli scambi telefonici e provato a tenere il filo di un rapporto di fiducia faticosamente costruito nel tempo. Ma, dicono sconsolati, il lavoro di strada è tutt’altra cosa! Non può prescindere dalla presenza, dal contatto, dal fare insieme.
Ora sta di nuovo saltando tutto: i laboratori formativi presso il centro di incontro circoscrizionale, che ha dovuto chiudere. Le gite in pullman a conoscere qualche vicino angolo di mondo. E quelle partite di pallone che ancora si giocano ma dalle quali gli operatori, in osservanza delle regole, sono costretti a tenersi lontani.
Si prova allora a rendersi utili in altri modi. Ad esempio offrendo supporto nelle pratiche di richiesta di bonus e sostegni economici. Qui tutti hanno uno smartphone, ma sono spesso analfabeti digitali, e del resto la burocrazia, inclusa quella online, è uno scoglio per chiunque. Sfruttando la credibilità acquisita prendendosi cura dei loro figli, gli operatori provano a dare sollievo alle famiglie in difficoltà almeno su questo fronte. Per evitare che, se non di Covid, si inizi a morire di sfiducia e di fame.
Il secondo capitolo online il 12 novembre:
Il terzo capitolo online il 16 novembre:
(cecilia moltoni)