“I femminicidi non sono un’emergenza”: sono parole spiazzanti, soprattutto all’indomani della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, quelle che aprono l’ultimo libro del filosofo e scrittore Augusto CavadiL'arte di essere maschi libera/mente. La gabbia del patriarcato (Di Girolamo Editore).
Qual è il senso di un’affermazione così forte e controcorrente?
“Mi riferisco al significato abituale del termine emergenza col quale indichiamo un fenomeno improvviso di cui si prevede la scomparsa altrettanto rapida. Purtroppo in casi come la violenza eclatante sulle donne non è così: è la punta di un iceberg, l’epifenomeno, di tutto un sistema socio-culturale maschilista. Un po’ come avviene con i delitti di mafia che sono solo il terminale di un dominio socio-economico e politico di cui ci si dimentica, disastrosamente, quando i delitti diminuiscono o tendono ad azzerarsi”.
Suppongo che una simile diagnosi comporti una terapia conseguente…
“Esatto. Se la violenza sulle donne ha profonde radici storiche in un ordine patriarcale, va affrontata con strategie di lungo periodo, senza illudersi sull’efficacia di rimedi-tamponi”.
Per esempio?
“Attivando una trasformazione nella mentalità di noi maschi paragonabile con la rivoluzione femminista degli ultimi quarant’anni. Non è un caso che il mio libretto sia frutto di una sorta di scrittura collettiva a opera del gruppo Noi uomini a Palermo contro la violenza sulle donne che è collegato con il movimento nazionale Maschile plurale: uomini che intendono assumersi la responsabilità storica, non necessariamente autobiografica, di un assetto ingiusto nei confronti delle donne.
In concreto?
“Se fosse facile sintetizzare il complesso di strategie necessarie, avrei evitato di scrivere un libro sul tema... Il nocciolo è intuire che l’attuale sistema mortifica le donne, ma almeno altrettanto gli uomini che - accettando passivamente di giocare il ruolo stereotipato di saccenti, pronti a tutto, assetati di potere e di denaro - rinunziano a far fiorire altre parti di sé: la gentilezza, la tenerezza, la cura dei piccoli e dei deboli”.
C'è chi sostiene che non si tratti di una questione di genere, ma solo di violenza insita nell’essere umano.
"È un’obiezione seria. Personalmente sono convinto che dal punto di vista genetico non ci siano differenze fra maschi e femmine. Ma se cresciamo in un ambiente in cui le bambine vengono educate a cucinare, a cucire, a cullare bambolotti e i bambini a giocare ai soldatini, a sparare con le armi-giocattolo o ad accompagnare i papà a caccia non possiamo stupirci degli effetti sociali. Senza contare i molti ambienti in cui la pace familiare è garantita solo dal predominio sistematico dei mariti sulle mogli”.
E questo squilibrio di potere a livello micro-sociologico può avere conseguenze più ampie?
“Certo. Sono convinto che a noi maschi la violenza non solo fisica sulle donne più prossime serva da palestra per imparare a esercitare altrettanta violenza ai danni dei diversi, gli stranieri, i nemici (veri o presunti). Il legame fra machismo e regimi bellicisti è ormai un luogo comune della ricerca scientifica sul tema. Basterebbe analizzare la concezione misogina del fascismo e la sua politica militarista”.
Pensa che tra le radici psicologiche della violenza maschile ci possa essere un inconscio desiderio di vendetta perché l’uomo non può generare?
“Una sorta di invidia dell’utero? Stefano Ciccone e altri studiosi del tema, come riporto anche nel libro, lo sostengono. L’incapacità di accettare i propri limiti costitutivi è spesso, in effetti, una molla della violenza. Frustrazione, insipienza e tracotanza si sostengono e si alimentano in un circolo diabolico”.
(barbara saporiti)