“La didattica a distanza è servita solo a non perdere i ragazzi… mi scrivevano a ogni ora, anche solo per il bisogno di stare insieme”. “L’investimento da fare non è in banchi monoposto o mascherine, non è in tecnologia: dobbiamo fare classi più piccole, assumere più docenti”. “Abbiamo dato pc, tablet, connessione, ma se non hai una famiglia alle spalle…”. “Con la chiusura è venuto meno il ruolo fondamentale della scuola, quello di tenere i ragazzi impegnati per 5 o 6 ore al giorno e basta”.
Estate 2020, fine del primo lockdown. Le voci, le parole, sono degli insegnanti che a marzo si sono trovati, con gli istituti chiusi da un giorno all'altro, a doversi inventare un modo per continuare la scuola. In un quartiere di Torino, Barriera di Milano, ad alto rischio dispersione per la concentrazione di situazioni di fragilità economica e sociale. Qui il Gruppo Abele è con l’Università della Strada partner del progetto Liberi di Crescere - Rete ad alta densità educativa (avviato nel 2018 in 12 istituti di Torino, Genova, Salerno, Messina e Palermo) che ha offerto un accesso privilegiato a due scuole già ben conosciute proprio mentre docenti e insegnanti si trovavano ad affrontare la pandemia, a esplorare territori sconosciuti. Una ricerca che ha coinvolto, oltre ai formatori e alle educatrici Michela Morgese, Kristian Caiazza e Sabrina Sanfilippo, l’antropologo Ivan Severi e la psicologa Simona Baracco e da cui è nato l’ultimo numero di Pagine, il periodico del Gruppo Abele, intitolato appunto Dad (per informazioni scrivere a formazione@gruppoabele.org).
I docenti dell'Istituto comprensivo Vercelli e del professionale Beccari di Torino sono stati coinvolti in una serie di interviste aperte e le loro esperienze rilette, in modo collettivo, da un punto di vista critico. È così emerso, innanzitutto, come la pandemia sia stata in realtà solo un faro che ha illuminato problematiche già conosciute e denunciate ben prima del Covid. Le classi “pollaio", il rapporto docenti/studenti troppo basso, l’assenza di spazi e momenti di condivisione, il venir meno del mandato a “raggiungere tutti e a mettere tutti allo stesso livello di condizioni”, la sensazione di solitudine resa più acuta dalle responsabilità. A fronte di una percezione del proprio ruolo educativo come scarsamente riconosciuto, socialmente svalutato.
La Dad, da sola, si è poi rivelata selettiva e discriminante, ha lasciato indietro gli studenti più in difficoltà, aumentando la dispersione e la diseguaglianza nell’accesso all'istruzione. Si sono perse le tracce di tanti, soprattutto stranieri, e il triste record va alle ragazze dei primi anni degli istituti tecnici.
Questa forma di didattica - che in futuro potrà essere di aiuto, ma non alternativa all’insegnare in presenza - ha però anche aperto squarci di opportunità. Le relazioni via webcam hanno in molti casi abbassato le difese, i ragazzi più timidi hanno rivelato caratteri e personalità, nel rapporto con le famiglie sono state scoperte “nuove sfumature”, si è entrati in relazione.
Nel caso poi dei prof che hanno fatto di tutto affinché nessuno si perdesse - procurando la tecnologia, contattando i genitori e magari chiedendo anche l’aiuto dei mediatori culturali - il distanziamento si è tradotto in incontro reale, fisico. In patto educativo. Contribuendo così a colmare quella frattura tra scuola e famiglia che troppo spesso finisce per trasformare i tentativi di dialogo in prove di forza, come sulla chiusura degli istituti a causa del Covid.
La pandemia ha infine evidenziato ancora una volta la carenza di confronto sulla scuola pubblica da parte della politica. La mancanza di un pensiero di fondo che ne orienti la programmazione e la gestione continua a rendere l’arte di arrangiarsi degli operatori l’unica pratica possibile. Ma non può essere certo questa la strada per il futuro.
(barbara saporiti)