L’8 marzo del 2001, vent’anni fa, Casa Gabriela nasceva da un incontro: quello con Gabriela, appunto, una ragazza moldava giunta a Torino con il marito con l’utopia di un lavoro. Ingannata, in realtà, perché Gabriela era stata venduta già in partenza a quelli che sarebbero stati i suoi sfruttatori: tradita da quelli che credeva i suoi affetti, da suo marito, da sua suocera. La donna denuncia tutto alla questura e grazie alla polizia viene in contatto con il Gruppo Abele, protetta in una struttura appena fuori dalla città. In quel momento, con quel gesto, di accogliere una ragazza senza null’altro che i vestiti che aveva addosso e neppure un ricambio, nasce Casa Gabriela. La storia di Gabriela non avrà poi un lieto fine, come troppe storie simili alla sua. Un giorno la donna scompare e di lei non si saprà altro. Da quel primo incontro, però, nasce un’idea consapevole: quella di voler sostenere i sussulti di dignità come quello che aveva portato Gabriela fino al Gruppo Abele. Ed ecco la comunità di fuga per donne vittime di tratta: un luogo in cui le persone che scelgono di emanciparsi dalla strada possano avere il tempo e lo spazio per prendere consapevolezza della loro scelta, uno spazio che serve per prendere forma.
Da quell’8 marzo 2001, Casa Gabriela ha accolto tante storie tra le sue mura. Negli anni sono cambiati, a periodi alterni, gli accenti del vociare che riempiono i luoghi comuni, le nazionalità, i vissuti delle persone accolte ma soprattutto l’età. Le ospiti che oggi abitano la comunità sono sempre più giovani: sanno bene che cosa non vogliono più fare – stare sul marciapiede – ma sono confuse su cosa desiderano per il futuro. Il loro progetto migratorio non è chiaro, non lo era fin dall’inizio. Spesso abbandonate dalle famiglie, nei loro Paesi d’origine non hanno potuto sperimentarsi in un percorso scolastico, in una relazione affettiva sana. Proprio per questo, oggi, forse più che ieri, alla nostra comunità è richiesto di essere casa. Perché le persone ci chiedono, spesso, di essere i loro punti di riferimento, la loro famiglia.
Non sempre è facile: trasformare l’edificio in una casa, l’accoglienza in uno strumento capace di allargare gli orizzonti. Non è facile perché alla difficoltà di ricostruire un’identità frammentata e una progettualità confusa per le persone che incontriamo, si aggiungono le sfide della convivenza quotidiana tra persone di culture diverse. Questo incontro interculturale ricorda a noi operatori l’importanza di modificare continuamente le proposte che il progetto fa alle persone che accoglie, disegnandole sui loro desideri e interrogandoci su quali siano gli strumenti migliori per accompagnarle verso l’autonomia. Un’autonomia che riguarda tanti aspetti che vanno oltre il distacco dalla rete criminale: domandarsi con loro cosa significhi essere donna, riflettendo quale modello, inconsapevolmente, spesso esse tendono a riproporre nonostante le schiacci e tolga loro la libertà; interrogarsi sull’importanza della costanza nel perseguire i propri desideri, nello “stare” nelle decisioni e nelle scelte prese anche quando è faticoso, superando quell’attaccamento alla vita che, tante volte, si traduce per loro in una enorme gratitudine in un presente che è vita ma non riesce ad andare oltre.
Oggi come vent’anni fa, stiamo lì. Stiamo nel vociare chiassoso del quotidiano, nella difficoltà che proviamo quando alcune scelte ci sembrano incomprensibili, nella fatica dei silenzi dolorosi ma soprattutto nella vostra speranza, inesauribile, che esista sempre un domani migliore. Tanti auguri casa Gabriela!
(l'equipe del Progetto Vittime del Gruppo Abele)