Qualcuno già comincia a chiedere che, nel nome, si sostituisca la parola “lavoro” con quella “lavoratori”. Nel frattempo, nelle leghe e tra gli iscritti della Cgil, la discussione è lanciata. Il cammino della nuova Carta dei diritti universali del lavoro è cominciato. Una grande proposta, che al momento non ha ancora trovato condivisione da parte degli altri sindacati confederali, che punta a riscrivere, alla luce degli accadimenti sociali e degli stravolgimenti economici, lo Statuto dei lavoratori datato 1970.
La nuova Carta, composta di 97 articoli per un totale di 64 pagine, divisa in tre parti (diritti universali, contrattazione, riordino delle tipologie contrattuali), scritta da giuristi in oltre un anno di lavoro, nelle intenzioni della Cgil deve diventare legge dello Stato. Ma, come per ogni legge di iniziativa popolare, l’iter è lungo e complesso e deve fare i conti con un mercato del lavoro tendenzialmente entropico e con lo scoglio del referendum e del Parlamento. Ne abbiamo parlato con Gino Crestini, segretario generale dello Spi Cgil di Torino.
Quarantasei anni dopo lo Statuto dei lavoratori, la Cgil rilancia sul tema dei diritti. Come nasce e perché la Carta universale dei diritti del lavoro?
La Carta scaturisce da due riflessioni e un obiettivo. La prima riflessione, di base, è che, in Italia come nel mondo, sono mutate le condizioni del mercato del lavoro. La precarizzazione e la flessibilità hanno cambiato in maniera consistente l’idea tradizionale che avevamo del lavoro e oggi, per i giovani, lavorare non è più mantenere la stessa occupazione per decenni. La seconda sta nel fatto che lo Statuto del 1970 è stato superato, soprattutto perché una serie di leggi approvate in questi anni hanno concorso al suo parziale smantellamento.
L’obiettivo, che è anche la nostra grande sfida, è quello di fare in modo che tutti, indipendentemente dalla tipologia di contratto, abbiano garantiti gli stessi diritti. Dobbiamo pensare, per dirla con una sola espressione, a un corredo unico di diritti: di cui il senso dell’attributo “universale”.
In che contesto s’inserisce questa elaborazione?
Una visione neoliberista del mondo, dell’economia e delle società ha squilibrato, e molto, il concetto stesso di lavoro. Spesso, soprattutto tra le nuove generazioni, il lavoro viene percepito come una concessione piuttosto che un diritto e l’avere un’attività si pensa che, da solo, basti ad accettare qualunque cosa poi accada sui luoghi di lavoro. La Carta vuole ribaltare questa visione, di fatto fondata su un predominio aziendale, e riportare alla luce un’immagine del lavoro che sia decente e dignitoso, che si svolga nel rispetto delle conoscenze e delle professionalità di tutti, che porti con sé un compenso equo e proporzionato, un riposo che consenta di conciliare vita familiare e professionale.
Ci sono molte differenze rispetto al passato. Le condizioni in cui è maturata la proposta dello Statuto del 1970 sono molto distanti da quelle attuali…
Lo Statuto dei lavoratori arrivò alla fine di lunghe battaglie e di una lunghissima attività di discussione politica sui posti di lavoro, nelle fabbriche, nelle sedi sindacali. Oggi è molto più difficile. Il lavoro è parcelizzato e senza orari fissi. Anche le remunerazioni sono fuori controllo. Basti pensare che nel solo 2015, sono stati usati oltre 100 milioni di voucher. Doveva essere un’eccezione, è diventata la norma. Ma volendo, possiamo pensare a rovescio: ovvero che la proposta del Carta funga da stimolo per creare un movimento forte che rimetta al centro delle lotte il tema dei diritti. Un movimento che si faccia portatore di questa proposta, che la spinga mentre ne discute. Un movimento che deve essere forte perché la nostra è una proposta di legge popolare e, come tale, deve fare i conti con un’opinione pubblica e un Parlamento. E se non siamo tanti e coesi, il rischio è la Carta finisca in un qualche cassetto, chiusa sotto chiave.
Ha parlato di flessibilità: bisogna conviverci o a superarla?
Bisogna ripristinare il senso delle parole, innanzitutto. Molti lavoratori, soprattutto giovani, scelgono la flessibilità e concepiscono il lavoro come intervallato, per esempio, da momenti di studio, formativi o da altre attività personali. Questa è una visione assolutamente positiva che però ha dato la stura alle cattive politiche, fino ad avere oggi un calderone unico in cui flessibilità e precarietà si sono mescolate e confuse. Non è così. Con la Carta puntiamo a ribadire che flessibilità non vuol dire assenza di diritti e che non devono esistere oltre delle zone franche in cui tutte le violazioni sono possibili. Si può essere flessibili e insieme portatori di diritti, immaginando una vita dignitosa durante e dopo il lavoro.
(piero ferrante)