Mi chiamo Cecilia e da qualche mese abito in una casa di accoglienza del Gruppo Abele. Casa nostra è sempre abbastanza affollata: ci sono le operatrici, che lavorano qui durante il giorno, noi due volontarie e otto ragazze nigeriane, oltre a qualche pianta che tentiamo di far sopravvivere. Le nostre coinquiline sono vittime di tratta che cercano di uscire dal circuito svilente della prostituzione o donne arrivate qui per evitarlo, questo sfruttamento. Sono soprattutto giovani, hanno dai 18 ai 23 anni, e hanno vissuto una vita per noi intollerabile.
Certe volte, quelle volte in cui se la sentono, si lasciano andare e ce le raccontano. Ci descrivono questo viaggio interminabile attraverso il deserto, in trenta sopra una jeep che chi cade è perduto. Ci dicono di come per giorni abbiano dovuto fare i conti con la sete, caldo e un bicchiere d'acqua, uno e basta, preso dai pozzi stracolmi di cadaveri. Nelle loro parole prende forma la fame, quella sensazione di abisso allo stomaco che non puoi colmare perché c'è nulla da mangiare. Narrano dei campi in Libia, delle botte, degli stupri. E dell'immensità rabbiosa del mare, che non avrebbero mai pensato che potesse essere tanto grande, di quel mare che non aveva una fine, "ovunque tu guardassi". E poi degli sbarchi e dei salvataggi col gommone che cola a picco.
Storie ricorrenti, diventate triste abitudine.
Storie di donne intrappolate nella rete di un giuramento voodoo dalle proprie protettrici (le madame), quelle che le hanno fatte arrivare nell'Europa terra promessa, le hanno nutrite e agghindate per il lavoro. Quelle a cui hanno dovuto promettere di restituire un debito di decine di migliaia di euro e di non scappare, pena una maledizione o ripercussioni sulla famiglia. Perciò quando poche settimane fa un Oba (una sorta di re) di Edo State ha celebrato un grande rito per annullare e condannare questi giuramenti, per tante di loro è stata la conclusione di una pena, una liberazione.
Di tutto questo, come di molto altro, non ero a conoscenza prima di trasferirmi qui. C'è un enorme e invisibile traffico nascosto dietro queste puttane a bordo strada (tra l'altro una delle ragazze ha scoperto oggi che questa parola può essere un insulto: chissà quante volte è stata chiamata così).
Ma casa nostra serve anche a provare a superare queste esperienze e a ritrovare un po' di normalità. Questo significa diverse cose. Per esempio che il cibo italiano non è poi così universalmente apprezzato, anche se il purè riscuote un discreto successo. D'altra parte noi fatichiamo un po' con i piatti di carne-pesce-gamberetti disidratati, gusti a cui non siamo abituate, ma amiamo l'igname e il fried rice.
Che intrecciare i capelli non è solo un vezzo, ma una specie di rituale, un'occasione sociale importante: si chiacchiera e si intreccia. Per ore.
Che si litiga per le pulizie, perché siamo in ritardo, perché qualcuno ha finito l'olio, perché dobbiamo "parlare in italiano!". Poi si balla (o meglio, noi tentiamo di muovere i fondoschiena a tempo imitando le movenze nigeriane, ma evidentemente ci mancano alcuni muscoli fondamentali). E si ride (dei nostri movimenti scoordinati).
Che in casa esistono delle regole di coabitazione e che le uscite sono monitorate per limitare il rischio di ricadere nella rete dello sfruttamento.
Che a volte la cucina può essere sovraffollata e bisogna essere un po' blocchetti di tetris per usare un fornello.
Che spesso la sala risuona di canti in pidgin-english (non importa che sia notte fonda o l'alba), ma anche Ed Sheeran va alla grande.
Che c'è sempre un andirivieni di volontari e che il volontariato è una risorsa cruciale.
Che ogni tanto accogliamo ragazze nuove, e che altre continueranno il loro percorso verso l'indipendenza altrove, e che ci mancheranno.
Che può capitare la giornata con la luna storta collettiva e quella con la ridarella a tutto spiano.
Che adesso ho scritto solo qualche riga, ma che sarà un periodo che ricorderemo per tutta la vita.
(cecilia m., volontaria di Casa Gabriela)