Da alcuni mesi l’Educativa di strada del Gruppo Abele sta portando avanti un piccolo progetto di ricerca in un quartiere popolare di Torino. I giovani e le giovani da coinvolgere sono stati selezionati in virtù della sedimentata relazione tra operatori, operatrici, ragazze e ragazzi del quartiere. Da diversi anni l’intervento educativo si articola in uscite regolari più volte alla settimana, in particolare nei pressi del campetto da calcio recintato posto tra le stecche di edilizia residenziale del quartiere. Decine di giovani di età e provenienze diverse si riversano ogni pomeriggio nelle aree verdi attrezzate, la fruizione degli spazi segue delle regole non scritte, ma tramandate dalla routine quotidiana: i ragazzi si impossessano del campetto, selezionandosi per bravura o necessità.
Abbiamo pensato di porre il tema del genere al centro dell’indagine, elaborando metodologie che consentissero alla ricerca di essere portata avanti durante i tempi delle uscite e con un coinvolgimento attivo di ragazzi e ragazze interessate.
Grazie al rapporto di fiducia precedentemente imbastito, è stato possibile strappare una decina di giovani dall’area del campetto, e chiuderli una volta ogni due settimane in una stanza messa a disposizione del vicino centro civico, per parlare di fotografia. I partecipanti vengono introdotti da Cristina (operatrice) e Francesca (tirocinante) a tecniche e riflessioni storiche sul mezzo fotografico. Di incontro in incontro si affrontano questioni che devono poi essere restituite tramite gli scatti dei partecipanti, le foto fatte vengono condivise su un gruppo WhatsApp appositamente costituito, accompagnate da una breve didascalia.
Abbiamo deciso di partire da tematiche generali per poi, durante il percorso, avvicinarci al tema del genere e del processo di crescita come ragazzo e come ragazza in un quartiere popolare e multietnico della città. Durante gli incontri c’è modo anche di confrontarsi sul perché della scelta di un determinato soggetto o punto di vista e di approfondire quindi l’immaginario che c’è dietro. Alla fine del progetto di photovoice, è previsto che una selezione delle immagini siano organizzate in una mostra rivolta agli abitanti del quartiere.
Tutto è proceduto regolarmente fino all’approvazione delle misure di contenimento del contagio, quando il servizio di educativa di strada è stato sospeso. Si è comunque tentato di portare avanti in maniera sporadica il laboratorio, attraverso il gruppo WhatsApp dedicato, prendendo “l’isolamento” come tematica su cui riflettere tramite le immagini.
Le prescrizioni del lockdown sono uguali per tutti, e proprio in quanto uguali per tutti, la fatica nel sopportarle varia in base alla forza di ognuno. Come sa chi ama i videogiochi degli anni ottanta e novanta, spesso nella schermata iniziale era possibile scegliere di affrontare una versione del gioco più o meno facile, (in genere easy, medium o hard), questo per evitare che il gioco uguale per tutti potesse risultare frustrante per qualcuno.
La longevità del lockdown è stata tarata su un’idea astratta di cittadino medio (dotato di un certo capitale economico, un certo capitale culturale e un certo capitale simbolico), mentre per i ceti popolari il tutto si è tradotto in una condizione che, se stessimo giocando a un videogame, potremmo definire frustrante. Purtroppo non siamo in un videogame e la frustrazione lascia quindi posto a complicazioni ben più serie che ancora, probabilmente, non siamo in grado di vedere ma sulla base della quali sarà necessario reimpostare tutto il lavoro degli anni a venire.
(ivan severi, antopologo, collaboratore università della strada)