Il silenzio virtuale è durato 4 giorni, quello reale un’ora esatta. Due modi per sospendere le parole e sentirsi addosso, almeno in forma simbolica, quella interruzione di normalità che la guerra porta nella vita delle persone. Cioè l’ammutolire improvviso del quotidiano – il lavoro, la scuola, i rapporti sociali, l’arte, la cultura, la cura... – travolto dal rumore e dal terrore delle armi.
L’iniziativa In silenzio contro la guerra, promossa sabato 9 aprile in piazza Carignano a Torino, ha visto una partecipazione numerosa e intensa. La piazza si è affollata, poco a poco, di persone vestite di bianco: chi il cappotto, un cappello, una maglia, chi un semplice dettaglio di questo colore senza colore scelto per accompagnare la manifestazione senza parole. Alla lettura del manifesto con le riflessioni che avevano ispirato la proposta è seguita un’ora di silenzio densa e assorta, con le note di alcuni artisti di strada a fare da inattesa e dolcissima compagnia.
Fra le circa 300 persone presenti, oltre al Gruppo Abele c’erano i rappresentanti delle associazioni che avevano aderito alla proposta: Il Filo d'erba, Libera Piemonte, Acmos, Cooperativa Nanà, Fondazione Benvenuti In Italia, Banca Etica, Agesci Piemonte. E poi cittadini di ogni età che si sono riconosciuti in quest’approccio riflessivo e, attraverso la partecipazione, hanno voluto condividere il proprio smarrimento, i propri interrogativi e le proprie speranze relativamente alla situazione della guerra in Ucraina e alla necessità di ricostruire la pace in quel territorio e in tanti altri Paesi martoriati del mondo.
L’impressione suscitata da quel silenzio, così come dalla pagina bianca che per qualche giorno ha sostituito il sito dell’associazione, è stata probabilmente diversa per ciascuno. Ma ha costretto tutti quelli che l’hanno sperimentata a uscire da certi automatismi di pensiero e di linguaggio, per rendersi conto che, di fronte allo sgomento e al senso di impotenza, si può decidere di sostare, di sperimentare fino in fondo i dilemmi di senso che preludono alle scelte più difficili, individuali e collettive.
Qualcuno si sarà chiesto: “A che serve un’iniziativa del genere?”. A nulla, se quel servire lo si intende nei termini dell’utilità, del risultato, della ricaduta immediata e visibile. Eppure serve se è invece inteso come un gesto che si mette al servizio: della conoscenza, dell’empatia, e poi dell’impegno quotidiano a costruire una pace reale, che si regge non sulla paura delle armi, ma sulla giustizia sociale, sui diritti, sulla vicinanza a chi soffre.
Ecco dunque che l’impegno prosegue, oggi, con le parole e nei fatti. Si riaccende il sito e tornano a parlare i canali social, con misura, senza paura e senza enfasi. Con l’auspicio che la Russia ponga subito fine al massacro del popolo ucraino, mentre il bombardamento di opinioni, analisi e commenti, che in queste settimane hanno accompagnato, spesso con toni aggressivi e scomposti, il flusso di informazioni sul conflitto, ceda finalmente il passo a una dialettica di pace.
(cecilia moltoni)