Matteo Di Candia è un pensionato mite. Ha 62 anni. Il 21 settembre 1999 sta festeggiando, seduto al tavolino di un bar, in compagnia di amici, il suo onomastico. Sono le nove di sera, a Foggia. All’improvviso, nel locale irrompe un commando, spara, e spazza via la vita di Matteo. Un sventagliata di colpi di mitra, almeno cinquanta. Matteo ha giusto il tempo di sussurrare la parola ‘aiuto’. Poi si rende conto di star morendo e si accascia in un bagno di sangue. L’obiettivo non è lui; l’obiettivo è un sorvegliato speciale. Il sorvegliato resta in vita. Matteo no. Matteo muore, vittima di una guerra di mafia, una delle tante scoppiate a Foggia. La città assiste, inconsapevole spettatrice. Le persone, tante, cadono, e nessuno che prova a interpretare cosa s’annidi dietro quegli spari.
Morte chiama morte. S’ammazzano tra loro, si dice. Si diceva.
Quando muore Matteo Di Candia il pensionato, la frase di circostanza, pubblicata dai giornali è la solita: ucciso per errore.
Quattro anni prima, quando a essere ucciso era stato mio padre, a mia volta avevo pensato lo stesso.
Quattro anni dopo, ancora da figlia di un morto ammazzato senza verità, con una giustizia lenta, ho fatto fatica a ripetere la formula. Capivo che non c’era nessun errore.
Che errore c’è nel fatto di festeggiare in un bar il proprio onomastico?
O che errore c’è nel tornare a casa dalla propria famiglia dopo una giornata di lavoro?
Nessun errore, quindi.
Veniamo a oggi.
30 dicembre 2017. Bitonto, cittadina alle porte di Bari. Una donna, Anna Rosa Tarantino, una anziana sarta ottantaquattrenne, sta andando a messa. Un commando di corsa, un uomo di corsa. Spari, ancora spari. Alla fine, è lei che viene crivellata di colpi. Come nel 1995, come nel 1999, i giornali scrivono ancora: uccisa per errore. Le pallottole, destinate a un affiliato, la ammazzano.
In Puglia, però, la percezione è cambiata. Ci sono voluti anni, decenni. Ma in pochi, nella comunità, oggi direbbero che è stata uccisa semplicemente per sbaglio.
Anna Rosa è vittima della logica di potere della mafia. Le organizzazioni criminali sparano non solo per uccidere. Sì, anche. Sparano per affermare il loro potere, esercitando così il controllo sul territorio. Spargendo terrore ed insicurezza.
Come testimone e come familiare, da molto vado riflettendo intorno alla narrazione del fare memoria: a come raccontare la memoria. Lo faccio perché la memoria ha un modo giusto di essere raccontata. Va individuato e utilizzato. Per esempio, raccontare le vittime di mafie non come vittime, ma come persone, non è solo un espediente: è un dovere. Così, ho e abbiamo provato ad anteporre alla parola ‘vittime’ la parola ‘persone’. Non più ‘vittime’, ma ‘persone vittime’. Questo perché abbiamo riflettuto sul fatto che, se cominciamo a parlare di questi nostri cari come persone rese vittime, riavvieremmo il passato, rendendolo vivo e in qualche modo presente.
Libera da tanti anni ha scelto il suo modo di fare memoria. Per noi è un’attività fusa con l’impegno e che dall’impegno non si separa mai. Non è semplicemente un’opportunità: è l’unico modo.
Intanto, ci apprestiamo di nuovo al 21 marzo, che si terrà a Foggia, in ogni luogo d’Italia e oltre l’Italia. Capita in ogni percorso di avvicinamento al 21 marzo di riflettere in modo più costante sul numero delle persone vittime innocenti delle mafie. Sono un migliaio quelle di cui pronunciamo i nomi. Quelle di cui conosciamo le storie per intero. O quasi per intero. Nel frattempo – perché la memoria non è immobile – negli archivi aggiungiamo periodicamente nuove storie. Storie che non conoscevamo e ora proviamo a conoscere. Storie che ci aiutano un po’ di più nel rendere questo elenco più aderente ai fatti, storie che sono parte della Storia d’Italia.
Ma più le storie aumentano e più ci accorgiamo di trovarci di fronte a uno sterminio.
E poi, a questa prima riflessione, si unisce una seconda e riguarda il dolore di chi non conosce giustizia. Riguarda la prospettiva asimmetrica di chi guarda il mondo non conoscendo il nome di chi li ha resi “familiari di vittime” a vita.
È il dolore dell’oggi, che si aggiunge a quello di ieri. Ma se non sentiamo questo dolore dell’oggi come il nostro dolore, non stiamo facendo memoria. Non è una questione di sentimento o sentimentalismo: è una questione di riconoscimento.
Laddove non c’è la verità (giuridica) completa, il riconoscimento delle storie garantisce almeno un minimo di giustizia.
Dall’anno scorso siamo stati investiti di un compito importante. Il 21 marzo è stato riconosciuto a livello ufficiale come giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Ecco allora che il compito si fa più responsabile, più coinvolgente, più pesante. Ecco allora che ricordare, ricordare e basta, non è più sufficiente. Dopo averla promossa, portata avanti per due decenni, animata, tocca a noi continuare a riempirla di contenuto, quella giornata. Di riflessione.
È con questo spirito che ci approcciamo alla realtà e alla cittadinanza di Foggia. Una comunità schiacciata da una criminalità eclatante. L’ultimo caso, di cui si è parlato però soltanto sulla stampa locale, è datato al primo febbraio. In piena notte, un gruppo di malviventi, per rapinare un supermercato, ha fatto saltare un muro utilizzando un escavatore. Per mettere a segno il colpo, hanno anche disseminato la strada di chiodi a tre punte e sbarrato la via con auto parcheggiate al centro della carreggiata di traverso per rallentare le forze dell’ordine. Prima di dileguarsi, il commando ha dato fuoco all’escavatore. Una cosa non così diversa era già capitata nel 2014 quando una parte di città fu addirittura isolata dando fuoco ad alcuni veicoli.
Un impatto enorme per un danno enorme. Per la città, per noi tutti che la abitiamo.
Andiamo a Foggia allora per fare da contraltare e denuncia a tutto questo. Ma anche per provare a fare da amplificazione, da cassa di risonanza a quella parte sana (e stremata a volte) di comunità sana che c’è e che va spinta e sostenuta.
Facciamo un buon cammino.
(daniela marcone, vicepresidente e responsabile memoria libera - dall'editoriale tratto da narcomafie 1/2018)