La sesta edizione del campo #iocivado è appena terminata e torniamo a casa con la valigia piena di emozioni, volti, storie, sorrisi, racconti, musica, lacrime, abbracci e complicità. Il legame che si riesce a creare tra le molte persone che partecipano è qualcosa di straordinario, se si pensa che il tutto è concentrato in soli quattro giorni.
Giovedì è il 12 aprile. Arriviamo alla Certosa di Avigliana: la natura e il silenzio la fanno da padrone. L'inizio è sempre pervaso dalla timidezza e tutti dobbiamo prendere confidenza con questa esperienza dalla quale non sappiamo bene cosa aspettarci. Si carbura piano piano, cercando di far trasparire ciò che siamo e cercando di porci in ascolto degli altri. Raccontiamo la nostra storia attraverso un'immagine: lo facciamo di fronte a 30 sconosciuti, eppure la trasparenza è disarmante. Stupore.
Venerdì la giornata è piena. Dopo colazione parliamo con esperti di immigrazione e dipendenze, poniamo domande e ci arricchiamo grazie a informazioni che non avevamo ancora immagazzinato nel nostro bagaglio personale. Iniziamo a maturare una consapevolezza: probabilmente, anche all’interno di questo mondo sconclusionato, le nostre azioni e i nostri pensieri possono fare la differenza. Inoltre, ci rendiamo conto in prima persona dell'esistenza di molti mondi “nascosti”, di cui nessuno parla.
Nel pomeriggio, il programma prevede una passeggiata narrativa. Ci ritroviamo su una panchina di legno: la terra è umida per la pioggia, il cielo è plumbeo. Di fronte a noi, un essere umano che ha dovuto lottare per vivere o anche solo per sopravvivere. Testimonianze dirette. Chi scappa da guerre atroci, chi da guerre interiori. Inevitabile pensare a quanto siano piccoli i nostri problemi e a quanto, talvolta, la distanza tra noi e queste persone sia molto labile, impercettibile. I confini si sciolgono come neve al sole e la consapevolezza di rafforzare la nostra morale, antidoto all’indifferenza dilagante, è sempre più forte. Emozione.
Dopo aver cenato tutti insieme, in un clima ormai disteso e gioviale, ci confrontiamo con due esperte sul delicato tema della transessualità: due donne molto competenti rispetto al vissuto di persone che, per mera fatalità, si trovano a vivere in un corpo “sbagliato”. Ci rendiamo conto dell'immensità delle problematiche che questi guerrieri devono sopportare per riuscire ad avere un corpo con il quale relazionarsi con la società – talvolta troppo bigotta nei loro confronti - e non un'armatura con la quale combattere una guerra interiore. Questo campo è incalzante, pieno, intenso. Riusciamo comunque ad avere le forze per cantare e ballare. Non ricordiamo più nemmeno che giorno sia e dimentichiamo di avere un telefono. Calore umano.
Sabato mattina ci alziamo presto, e con poche ore di sonno in corpo ci rechiamo incuriositi in alcune comunità del Gruppo Abele. Quello che troviamo, sia da parte degli ospiti che degli operatori, è qualcosa di inaspettato: la semplicità. Sì, perché è proprio con un po’ di genuinità e di leggerezza che i problemi si affrontano in maniera più efficace. Certo, le difficoltà quotidiane sono molte, ma ciononostante ognuno fa la sua piccola parte con passione, riuscendo così a far funzionare in modo armonioso la vita comunitaria. L’accoglienza nei nostri confronti è calorosa: le differenze si annullano a tal punto che ci sembra davvero di essere a casa. Consumiamo il pranzo tutti insieme, dopodiché torniamo indietro con il sorriso di chi ha vissuto di pancia. Intensità, autenticità.
Al rientro in Certosa, ancora carichi di emozioni vivide, passiamo alcune ore a dialogare con don Luigi Ciotti, il quale ci racconta alcuni pezzi della sua vita. Cogliamo al volo l’opportunità di rivolgergli alcune domande. Rispetto alla nostra modesta esperienza, i temi di cui ci parla appaiono enormi: ci sentiamo davvero piccoli rispetto a cotanta tenacia. Tuttavia, lui ci ricorda che, potenzialmente, ognuno di noi può donare aiuto: basta imparare a guardare oltre il proprio naso e cogliere quelle parole non dette, che molte volte la vita frenetica non ci permette di carpire. Siamo nel posto giusto e siamo completamente immersi in questa esperienza. Stanchi ma pieni, grati, felici.
L'ultima mattina, prima di visitare Binaria, il meraviglioso centro “commensale”, ci chiedono di fare delle conclusioni, di tirare le fila di questa esperienza. Incerti, cerchiamo di buttare fuori qualche idea e quello che ne esce è qualcosa d’incredibile. Durante le rappresentazioni, testimonianze di ciò che ci portiamo a casa, ci rendiamo conto del grande legame che si è creato tra di noi, della forza di tutto ciò che abbiamo vissuto.
Questo racconto avrei potuto scriverlo in prima persona, ma ho deciso di usare il Noi. Una scelta dettatami dal cuore, frutto dell'empatia che si è creata in questi quattro giorni. L’intreccio delle nostre singole storie - così diverse, così vicine – ha creato un enorme polmone capace di respirare e generare aria pulita: aria di curiosità e confronto.
Aria di #IoCiVado.
(di francesca reitano, nello staff dell'organizzazione di #iocivado e volontaria della drop house del gruppo abele)