Una primavera così esplosa di colore e di sole è un emblema di speranza talmente evidente che non può passare inosservato neppure al più irredento dei pessimisti. A Padova, a fare la primavera ci si mettono in 50mila, rondini in volo terreno per pronunciare 1011 nomi, quelli delle vittime innocenti delle mafie, del caporalato, dei segreti di Stato, delle tirannie moderne. È una primavera satura di luce la primavera di Padova, che viene un anno dopo il tripudio di pioggia e vento di Foggia. Nel profondo Nordest, quello lavoratore e contadino, quello dell’industria che prova a non tirare i remi in barca nelle secche della crisi, la partecipazione ha il volto degli studenti, degli scout, dei sindacalisti intervenuti da ogni parte della penisola. La Giornata della Memoria e dell’Impegno numero 24 certifica, qualora ce ne fosse stato ancora il bisogno, il risveglio civile di un Paese che non ci sta a soccombere all’odio, a macerare covando rabbia. La risposta sta anche nei numeri: tra tutte le piazze e le strade d’Italia e d’Europa, si contano un milione di manifestanti (diverse decine anche del Gruppo Abele, divisi tra le piazze, oltre che di Padova, di Novara, de L'Aquila, di Ravenna).
E se Libera chiama, Padova risponde forte.
Nel serpentone che canta tra i palazzi quattrocenteschi e le cupole delle basiliche e delle chiese.
Dalle ringhiere delle case e dai balconi, da cui le urla di sostegno fanno come da stella polare, segnando la strada che porta fino alla magnificenza di Prato della Valle, dove la Storia e l’architettura, con l’aiuto del genio umano, hanno nel tempo cesellato un capolavoro urbano. E dove sul palco, quello della lettura dei nomi sul base del Canone di Pachelbel, quello dell’intervento finale di Luigi Ciotti, campeggiano la gigantografia del titolo scelto per questa edizione: Passaggio a Nordest. Orizzonti di giustizia sociale e di una bussola che punta dritto al punto cardinale.
Padova la bella si mette a tacere quando sente scandire i nomi racchiusi in quell’elenco che conferma ogni anno il senso profondo dell'esserci.
Padova la colta si lascia prendere dalle parole di don Ciotti, con quella voce che rimbomba dappertutto, con un’eco potente che suggestiona e che gioca a rimbalzo con le pietre.
E come sempre, le parole di don Luigi scandiscono preliminarmente la conferma di una verità che, anno dopo anno, resta negata: 163 anni di mafia – dice il fondatore di Libera e del Gruppo Abele – e nemmeno un quarto dei familiari a sapere chi o perché li abbia sottratti all’affetto dei propri cari. Fare memoria significa in definitiva questo: confrontarsi nella spirale della fragilità, toccare con mano il dolore discreto di vite schiacciate dalla tracotanza mafiosa.
Questo 21 marzo vive però anche della risacca del presente, delle baruffe tra Stati che si contendono quote di migranti nel frattanto lasciati a mollo in mezzo al mare. Il "mercato delle vacche", lo chiama don Ciotti, che alimenta un "sistema in cui le cose contano più delle persone”. Un sistema che “per paura di scoprirsi fragile” allontana il fragile, che è soprattutto (ma non solo) il migrante, fino a colpevolizzarlo, fino a che la vittima si veste da carnefice (e qui che il pensiero di don Luigi va alla Mediterranea: “Io sto con la nave che salva le vite. Io sono lì”). Un sistema cosparso di ombre, di "zone grigie" che sono “vuoti di democrazia”, “furti di giustizia”. E che, in quanto vuoti, non aspettano che di essere colmati. “Sono le mafie a riempirli – denuncia don Ciotti – E più li riempiono più diventano forti. E le mafie sono forti quando la democrazia è debole”. Servono anticorpi sociali, dunque. Partendo dal presupposto che “le leggi devono tutelare i diritti non il potere, promuovere la giustizia sociale non alimentare diseguaglianze e discriminazione”.
Sta soprattutto alle giovani generazioni il compito di egemonizzare questo presente perché il futuro non diventi una trappola. Per lunghi tratti il discorso di don Ciotti assume la forma di un dialogo diretto proprio con loro, in un’interlocuzione che è come una preghiera: “Tocca a voi che non siete induriti dagli egoismi e corrotti dal denaro”.
In questo dialogo continuo c’è la speranza del cambiamento, quello che anima padre Dall’Oglio e Silvia Romano; c’è la voglia di verità, quella che muoveva i passi di Giulio Regeni, di Ilaria Alpi e di Milan Hrovatin; c’è la sete di giustizia di quanti non sottomettono la propria voce all’opportunità, come Roberto Saviano e Augusta Schiera, madre di Nino Agostino, che sulla lapide s’è fatta scrivere che una madre cerca la verità anche da morta; e ci sono gli esempi, come quello di Tom Benetollo, storico presidente dell’Arci e compagno di tante battaglie combattute dalla trincea dell’Arci. Sono questi gli ultimi nomi scanditi al cielo di Padova. Nomi di chi ha lottato e di continua ancora a lottare.
(piero ferrante)