La città di Torino ha appena firmato la Carta per l'integrazione dei rifugiati, un documento che impegna le istituzioni a garantire diritti e percorsi di inserimento alle persone titolari di protezione umanitaria. Percorsi che in passato sono stati attivati soprattutto su impulso di associazioni e gruppi impegnati nell’accoglienza ai migranti, talvolta passando attraverso canali informali. La firma di questo documento fa sperare nella svolta invocata da molti: la sicurezza per tutti si costruisce a partire dall’umanità e dai diritti di tutti.
Ma ci sono anche segnali di senso opposto.
Mentre nel CPR di corso Brunelleschi si verificano sempre più numerosi atti di autolesionismo e tentativi di suicidio, l'unica voce istituzionale a interessarsi delle condizioni critiche in cui vivono le persone dentro quella struttura rimane la Garante cittadina per i detenuti, Monica Gallo.
Intanto uno degli attori più importanti della città, il Politecnico, conferma l’accordo per fornire dati cartografici a Frontex, la controversa agenzia europea per il controllo delle frontiere, al centro di procedimenti giudiziari per la violazione sistematica dei diritti dei migranti.
Proviamo a inquadrare la situazione con Gianluca Vitale, avvocato, co-presidente di Legal Team Italia e impegnato con Asgi – Associazione studi giuridici sull’immigrazione.
“Il momento attuale è particolarmente duro e, se vogliamo, avverso per chi auspichi dei reali e duraturi percorsi di accoglienza. Ma la genesi della Carta per l'integrazione dei rifugiati fa sperare, perché è frutto degli incontri fra i rappresentanti di varie città metropolitane (oltre a Torino Bari, Palermo, Napoli, Roma, Milano) determinate a creare un network di Comuni impegnati in questo senso.
Certo, la Carta non è che una dichiarazione di buoni propositi, priva di diretta applicabilità e soprattutto di fondi che ne sostengano le linee di intervento, ma può essere utile per indicare una direzione: la preferenza per l'accoglienza diffusa in piccoli nuclei e/o in famiglia, lo sviluppo di soluzioni abitative post-accoglienza, la promozione della tutela della salute anche mentale, l'aspirazione alla creazione di un sistema che veda coinvolti (e dialoganti) tutti gli attori pubblici che hanno o possono avere un ruolo nell'accoglienza.
Dovremo verificare che non ci si fermi al segnale, ma che ad esso seguano azioni concrete efficaci.”
Di fronte alle accuse mosse da una parte del personale di Ateneo e supportate da un ampio cartello di associazioni fra cui il Gruppo Abele, il Senato Accademico del Politecnico si è limitato ad approvare una clausola contrattuale che impegna Frontex a utilizzare i dati nel rispetto dei diritti umani. Ammesso che abbia un’utilità pratica, questa clausola non è un controsenso e una sconfitta? Il rispetto dei diritti non dovrebbe essere scontato?
“Il movimento che, in pochi giorni, si è sviluppato contro l'accordo tra il Politecnico di Torino e Frontex, ha avuto il merito di far conoscere anche a un pubblico di non tecnici cosa sia e di quali violazioni sia responsabile la più oscura fra le agenzie europee, oltre che una delle più finanziate e l'unica dotata di un proprio corpo armato, a significare che l'unica difesa comune europea è quella contro i migranti. Purtroppo la soluzione adottata dal Politecnico è stata minimale: salvaguardare l'accordo limitandosi ad affermare il comune impegno ad agire nel rispetto dei diritti umani.
Certo l’esistenza stessa della clausola, la sua necessità è un atto di accusa a Frontex, un dito puntato contro l'agenzia. Un risultato in qualche modo positivo.
Al contempo, però, è la dimostrazione che in tema di diritti umani ci si accontenta facilmente delle dichiarazioni d’intenti. Credo che in Senato accademico molti abbiano guardato soprattutto al possibile precedente, al pericolo che altre commesse o partecipazioni del Politecnico potessero venire messe in discussione. In fondo una clausola di stile può risolvere ogni problema, come uno schermo ipocrita.”
Tutti sembrano appellarsi a un principio di neutralità e scarico di responsabilità: il Politecnico, i gestori del CPR, ciascuno rivendica di agire entro i confini del proprio mandato istituzionale. Un’ottica astratta e burocratica che contrasta con la crudezza dei fatti: persone respinte al gelo e in alto mare, persone rinchiuse senza colpe dentro spazi disumanizzanti...
“Nascondersi dietro le responsabilità di altri (non sono io a decidere... è la legge che lo impone...) o alla neutralità del proprio ruolo (la mia è solo ricerca…) è un atteggiamento di difesa comune.
Nel caso del Politecnico, la tesi della neutralità della ricerca (anzi della commessa) va rigettata per vari motivi: la collaborazione concessa da un prestigioso ente universitario diventa per Frontex uno strumento di autodifesa e propaganda; ciò che quelle mappe possono veicolare è la falsa credenza di un’Europa sotto assedio, e la conseguente necessità di difenderne i confini; le mappe hanno un ruolo potenzialmente cruciale nelle operazioni di pushback: consentiranno di individuare tutti i possibili percorsi, i luoghi di transito e nascondiglio delle persone migranti, facilitando il contrasto all'immigrazione con i metodi illegali che conosciamo e denunciamo.
Extracomunitari del Cie di corso Brunelleschi salgono sui tetti della struttura e danno fuoco alle coperte, Torino, 21 aprile 2012. ANSA/ALESSANDRO DI MARCO
Quanto al CPR, sono convinto che ognuno degli attori che ha un ruolo nella vicenda ha anche una parte di responsabilità in quanto succede.
Il CPR è, più ancora del carcere, il luogo dove oggi in Italia si sperimenta la banalità del male; più del carcere perché lì alcune regole ci sono, magari poco o inadeguatamente applicate, ma ci sono. Qui, invece, le norme sono pressoché inesistenti, e il tutto è lasciato alla prassi, al “si fa così perché così abbiamo sempre fatto”. Se volete ancor peggio: si violano i diritti e la dignità di una persona in nome di una norma che neppure esiste, di un ordine che neppure è stato formalizzato.”
Pensiamo alla vicenda delle occupazioni – la più famosa quella dell’ex-villaggio olimpico – e alla funzione ambigua dei Cpr, luoghi di carcerazione di innocenti. Si può dire che i diritti di proprietà – la proprietà degli edifici, la “proprietà” del territorio stesso: “l’Italia agli italiani” – siano oggi protetti dallo Stato con molta più convinzione rispetto ai diritti umani?
“Malgrado gli stravolgimenti che la Costituzione ha subito negli anni, e il suo progressivo impallidire nella coscienza dei cittadini, restano profondamente validi almeno i suoi enunciati principali e più avanzati.
Fra questi rientra l'articolo 42, che, nel riconoscere e garantire la proprietà privata, chiarisce che deve avere una funzione sociale e deve essere accessibile a tutti (tanto da consentire che a tal fine la legge introduca dei limiti al godimento della proprietà stessa).
In quest'ottica, è più lontano dallo spirito costituzionale chi ha occupato l'ex villaggio olimpico e altri stabili abbandonati, o chi ha consentito il loro degrado abbandonandoli? Chi è che ha restituito a quei luoghi una funzione sociale e comune?
Eppure il crimine è di chi ha promosso le occupazioni: certo per dare riparo a sé stesso, ma ristabilendo in questo modo un ordine di priorità costituzionalmente accettabile.
È la proprietà, espressione dell'ordine costituito, a ottenere le massime tutele, persino a scapito dei diritti fondamentali.
Nello stesso senso, l'ordinato governo dei flussi migratori diviene obiettivo primario, anche quando in conflitto con la tutela dei diritti di chi quei flussi percorre, poco importa se per fuggire da una guerra o per cercare condizioni di vita dignitose. In ultima analisi, è la proprietà dei confini che viene difesa, anche se questo comporta far morire la gente poco al di là di quei confini.
Lo stesso vale per i CPR: una privazione della libertà personale in via amministrativa, in assenza di reato, determinata solo dalla condizione giuridica, senza previo e comunque adeguato controllo giurisdizionale, è una aberrazione costituzionale che solo qualche decennio fa avremmo ritenuto impossibile.
In questa situazione, in questo stravolgimento dell'ordine dei diritti, lo stesso (mal)trattamento di quei soggetti diviene non solo possibile, ma anche accettabile.”
(cecilia moltoni)