In vista della sua partecipazione, sabato 4 giugno a Binaria, all'incontro "Quando l'ingiustizia sociale genera mostri" con don Luigi Ciotti e Jacopo Rosatelli nell'ambito del Festival internazionale dell'economia abbiamo intervistato Elena Granaglia, docente universitaria di Scienza delle Finanze, da sempre impegnata sul tema del rapporto fra giustizia sociale e disegno istituzionale delle politiche di distribuzione delle risorse.
Da decenni assistiamo a un peggioramento delle condizioni di vita e alla marginalizzazione di fasce crescenti della popolazione, con un divaricamento delle opportunità in ambito economico e non solo. La pandemia e gli effetti della guerra sembrano ora aggravare le prospettive di una società che non sa garantire opportunità e condizioni minime di dignità per tutti. Possono questi recenti shock globali essere l'occasione per un cambio di rotta?
"Dovrebbero, ma difficilmente lo saranno. Non avverto, anche se spero di sbagliare, una disponibilità concreta a prendere il punto di vista e le parti dei perdenti. Pensiamo alle sanzioni messe in pratica nei confronti della Russia. Pur ipotizzando che possano essere una soluzione corretta, hanno creato e creeranno una distribuzione assai asimmetrica dei costi. Basti pensare ai 323 milioni di persone nel mondo che rischiano di cadere in povertà alimentare, al ritorno di rischi di guerre del pane anche in Europa, una situazione che ritenevamo superata da secoli, alle imprese che chiudono, ai lavoratori che saranno disoccupati… Ebbene, il giorno in cui alcuni dati arrivano alla ribalta sembriamo preoccuparci, ma basta poco per girarci dall'altra parte. Detto in altri termini, non vedo traccia importante, a livello di opinione pubblica e di governi, dell'intenzione di tenere in conto i costi di queste azioni in maniera solidale. Certo, vi è l'oggettiva difficoltà che l'interdipendenza tra Paesi pone a un tentativo serio e globale di cambiare rotta. La guerra ci ha messi di fronte a ciò in modo drammatico, mostrandoci quanto la nostra quotidianità dipenda da equilibri globali indistricabili. Ma le difficoltà non devono essere una scusa per giustificare la non azione".
Esistono numerose proposte di politica economica e sociale alle quali anche lei ha dato un contributo importante sul piano teorico. Dovendo sintetizzare molto, da dove occorrerebbe partire per fare della giustizia sociale un orizzonte concreto?
"In primis, serve operare una più equa distribuzione dei benefici e dei costi della cooperazione sociale già a livello di regolazione dei mercati, delle imprese, di come si genera il reddito. Dobbiamo far sì che il modo in cui produciamo e distribuiamo i redditi prodotti sia retto da criteri di equità. Il riferimento è a quella che oggi viene denominata come pre-distribuzione. Occuparsi di pre-distribuzione significa occuparsi di diminuire le concentrazioni di potere economico; di modificare regole dalla globalizzazione che mettono a repentaglio gli standard di tutela sociale; di attivare processi partecipati di creazione di lavori decenti; di evitare esternalizzazioni al ribasso e contratti pirata, introducendo al contrario forme di democrazia economica nelle imprese; di occuparsi della riproduzione sociale. La pre-distribuzione è importante sia in sé, perché noi crediamo nell'equità, sia in via strumentale, perché se l'economia distribuisce i suoi frutti in modo così disuguale come avviene ora si creano forti gruppi di potere e con essi un'asimmetria nella possibilità di esprimere la voce delle diverse componenti della società. E questo renderà sempre più difficile il cambiamento. Intervenire sul piano distributivo delle regolazioni dei mercati - del lavoro e dei capitali - è quindi dirimente, per ragioni di giustizia in sé e anche per rendere più facili e più sostenibili le politiche redistributive, basate sulla tassazione e sulla spesa pubblica.
Anche sul lato della redistribuzione c'è molto da fare. In merito alla tassazione, in un contesto in cui le disuguaglianze sono così elevate, trovo che sia poco giustificabile continuare a dire "non si mettono le mani nelle tasche degli italiani". Certo non vanno messe nelle tasche di tutti gli italiani, ma una qualche revisione della tassazione con un incremento dell'imposizione nei confronti di chi ha di più mi sembra desiderabile. Dal punto di vista della spesa pubblica abbiamo assistito in questi ultimi decenni a una sostanziale svalorizzazione del lavoro dei servizi sociali e dei servizi pubblici. Potenziare i servizi è invece la base per una società in cui si viva dignitosamente".
Oggi abbiamo bisogno di sguardi larghi capaci di tenere insieme questioni complesse senza rinunciare ad affrontare le sfide fondamentali del nostro tempo. In questo senso è molto interessante l'approccio, come è stato definito, dell'economia della ciambella. Di che si tratta?
"L’idea su cui si fonda la cosiddetta economia della ciambella è che per modellare un’economia in cui le persone possano prosperare è necessario che ciascuno possa vivere con dignità e senso di comunità all’interno dei limiti delle risorse che il pianeta ci mette a disposizione. All'estremo esterno della ciambella ci sono dunque i limiti che non dobbiamo superare per rispettare l'ambiente, al lato interno quelli relativi ai bisogni fondamentali delle persone. L'economia, per essere inclusiva e sostenibile, si deve muovere entro questi due confini".
E cosa c'è nel buco della ciambella?
"Ci sono tutti coloro che non vedono i loro bisogni fondamentali soddisfatti, gli ultimi, gli emarginati. Ricordiamo che in Italia la povertà assoluta coinvolge oltre il 6% della popolazione (dati Istat 2019) e quella relativa oltre l'11%. Tutte queste persone stanno nel buco, e l'obiettivo della ciambella è invece che quel buco sia, appunto, vuoto. Questo approccio sembra molto condivisibile, ma in realtà è estremamente radicale se si tiene conto dell'evidenza che, negli ultimi 200 anni, l'economia si è sempre sviluppata sull'idea di una crescita senza fine, sul postulato nella non-sazietà, sul principio che avere di più è sempre meglio. Al contrario, l'economia della ciambella ci ammonisce sulla presenza di limiti, sulla necessità di fondare l'economia sul rispetto di tali limiti sociali e naturali. L'economia serve per garantire il benessere della popolazione e questo non può esistere se si lasciano indietro così tante vite e si mette a repentaglio l’ambiente".
(a cura di Filippo Scisciani e Manuela Battista, Binaria centro commensale del Gruppo Abele)