Askatasuna è uno storico centro sociale torinese, che da più di 25 anni ha “trovato casa” dentro un palazzo abbandonato nei pressi del centro cittadino, facilmente riconoscibile per il colore rosso vivo della facciata. Oggi questo spazio e le persone che lo animano sono al centro di un dibattito molto polarizzato, il cui esito potrebbe “fare scuola”, in un senso o nell’altro, nell’orientare le future politiche urbane di gestione dei conflitti e dell’ordine pubblico.
Da una parte, c’è un’amministrazione che fa una scelta coraggiosa, intelligente e lungimirante, seppure non priva di difficoltà. Dall’altra chi per calcolo politico o rigidità ideologica attacca la proposta, offrendone una lettura strumentale e senza vederne le potenzialità in termini di riqualificazione territoriale e sviluppo culturale e sociale.
Il Gruppo Abele la ritiene al contrario un modello di negoziazione e responsabilità condivisa dei beni pubblici che potrebbe essere replicato in altre situazioni simili.
Per capire meglio, ecco i fatti: una delibera della Giunta comunale del 30 gennaio scorso individua lo stabile di corso Regina 47 come “bene comune”, di cui un nuovo soggetto, che riunisce gli attuali occupanti e altre persone e realtà, si prenderà cura in collaborazione con i competenti uffici del Comune. Si darà il via a un percorso di co-progettazione, aperto a chi ne voglia far parte, nel rispetto dei valori costituzionali e antifascisti e nella messa al bando di qualsiasi forma di violenza. Il percorso sarà finalizzato in primo luogo a mettere in sicurezza l’edificio, per poi promuovere attività sociali, culturali e ricreative rivolte agli abitanti della Circoscrizione e non solo. Quelle stesse attività che Askatasuna ha del resto svolto negli ultimi 25 anni, diventando snodo di un fermento ideale spesso non riconosciuto nelle sedi più istituzionali, ma anche riferimento per i bisogni molto concreti delle fasce più deboli: dall’emergenza abitativa al diritto al cibo, all’istruzione e alla salute.
Chi critica il progetto lo fa in nome della sicurezza e della legalità, ricordando episodi del passato nei quali alcuni membri di Askatasuna hanno agito al di fuori di essa. Queste proeccupazioni, che si possono comprendere, non sono però del tutto fondate.
Primo, perché solo una piccola minoranza delle persone che in oltre 25 anni hanno abitato e animato il centro sociale si sono macchiate di reati o condotte violente, che vanno ovviamente sanzionate ma la cui responsbailità non può ricadere su tutto il collettivo.
Secondo, perché è definito in maniera chiara che quel tipo di deriva non troverà spazio nel percorso avviato dal Comune, e il coinvolgimento di realtà terze del quartiere serve proprio a garanzia di questo.
Terzo, perché chi critica non offre reali alternative: davvero sarebbe preferibile sgomberare con la forza l’edificio, amplificando il conflitto sociale per poi magari restituire quelle mura al destino di degrado e abbandono che avevano prima dell’arrivo degli attivisti?
Serve una riflessione sul perché troppo spesso le tensioni a livello urbano vengano esasperate anziché affrontate attraverso il dialogo e la cooperazione, come viceversa si vorrebbe fare in questo caso. La crescita di povertà e disuguaglianze, così come le minacce all’ambiente e al clima, vedono alcune persone, soprattutto fra i più giovani, reagire con rabbia, anche per provare a rompere la diffusa cappa di fatalismo e rassegnazione. Di fronte ad azioni eclatanti – pensiamo alle incursioni dimostrative degli attivisti climatici, o alle iniziative di tutela del diritto alla casa da parte di gruppi antagonisti – sentiamo spesso invocare punizioni severe. Si etichettano sbrigativamente le persone come “eco-terroristi”, “vandali”, “violenti” o “criminali”. E si stigmatizza l’attivismo in sé, non soltanto le sue eventuali forzature. Mentre poco o nulla di dice su ciò che lo ha innescato: ingiustizie sociali e ambientali, diritti violati, inerzia della politica.
La vicenda Askatasuna, da terreno di scontro, può diventare un prezioso banco di prova. Abbandoniamo i pregiudizi e le etichette. Scommettiamo sulla collaborazione, sul confronto, sul pragmatismo. Ascoltiamo le istanze che arrivano dalle fasce più marginali – in senso sia materiale che politico – della società, e fidiamoci di un ente pubblico che sceglie di mettere i suoi beni al servizio di bisogni e diritti, anziché difenderne in maniera sterile la semplice “proprietà”.
Beni comuni significa beni di tutti. Tutti ne siamo proprietari e tutti quindi responsabili. Un percorso partecipato di gestione di un immobile comunale che concretamente realizza questo principio, a vantaggio dello sviluppo territoriale nel suo insieme, non può che essere guardato con favore e con speranza.
Fondazione Gruppo Abele